giovedì 20 agosto 2009

8. Le teorie sullo Stato

Sull’idea di Stato si contendono il campo due gruppi di teorie: le teorie olistiche, che giustificano lo Stato duale e autoritario, e le teorie individualistiche, che vorrebbero invece una società egalitaria e democratica.

8.1. Le teorie olistiche dello Stato
Ciò che accomuna le teorie olistiche è l’idea che la singola persona sia inferiore all’istituzione e allo Stato. Vediamone alcune.
Lo spiritualismo poggia sulla concezione di un Dio-Padre perfetto e onnipotente, alla quale fa pendant quella di un uomo-bambino, radicalmente incapace di discernimento morale e di autodeterminazione. L’individuo, dunque, è «secondo» ed ha bisogno di una guida amorevole e paterna. Il vero protagonista è Dio. È Dio che impone la legge, è Dio che sceglie le persone cui affidare funzioni di guida per il suo popolo, è Dio che dà origine allo Stato e destina alcuni al comando altri all’obbedienza, è Dio che si serve degli uomini per realizzare i suoi imperscrutabili progetti. Il singolo individuo non deve far altro che rinunciare a se stesso e farsi docile strumento, abbandonarsi e ubbidire. È in quest’ottica che si sviluppano le concezioni politiche di Tommaso d’Aquino, Rosmini, Gioberti, e di tanti altri spiritualisti, per i quali l’individuo, in quanto creatura, è privo di valore in sé. Acquista, invece, valore la chiesa gerarchica, ossia l’insieme dei pastori, ai quali Dio ha affidato il compito di guidare il suo gregge. È la Chiesa che dà valore all’individuo, e non viceversa, e lo stesso individuo, se esce dalla Chiesa, perde qualcosa.
Alle medesime conclusioni giungono, seppure per vie diverse, i cosiddetti funzionalisti e gli organicisti. A differenza del comportamentismo, che assume ad unità di analisi il comportamento dei singoli individui, il funzionalismo si pone in una prospettiva olistica e considera il tutto superiore alla somma delle singole parti, lo Stato superiore alla somma dei singoli membri che lo compongono. Mentre i comportamentisti rivolgono la loro attenzione alle motivazioni e ai bisogni degli individui, alla loro psicologia, alle loro intenzioni, alla loro coscienza e al loro subconscio; i funzionalisti (come B. Malinowski, R.K. Merton, T. Parsons, D. Easton, e molti altri) privilegiano la ragion di Stato, le esigenze delle istituzioni, gli equilibri del sistema, le esigenze del potere, la forza delle tradizioni, e via dicendo. Per i funzionalisti, la realtà vera risiede nel gruppo, nella società e nello Stato, che sono le uniche entità autonome, mentre il singolo individuo è una semplice parte di un tutto più complesso.
Anche la concezione organicista, che annovera fra i suoi esponenti personaggi come Schlegel, Schelling, Novalis, Muller e Haller, vede lo Stato come un organismo nella sua interezza, mentre i singoli individui sarebbero le cellule e i gruppi gli organi e le membra. Così come il corpo di un essere umano deve essere considerato superiore alle singole cellule e agli organi che lo compongono, allo stesso modo i singoli individui sono inferiori allo Stato. Elevato a dignità di persona, lo Stato si muove e si comporta come se fosse un essere umano (pensa, decide, soffre, esulta, lotta per i propri interessi), mentre il cittadino in carne ed ossa cade nell’ombra e diventa secondario.
Nell’Ottocento, dominato dall’idealismo hegeliano, prevale la tesi del primato dello Stato sull’individuo, si tende a respingere l’idea che lo Stato sia originato da un «contratto» tra persone libere e si afferma il primato assoluto dello Stato. “L’individuo si dissolve nel popolo che si costituisce come un’entità organica e indivisibile; lo spirito del popolo diventa il motore della storia e in suo nome si può prendere ogni decisione” (FACCHI 1997: 112). Secondo Hegel, “è il popolo che riceve identità dallo Stato, non viceversa. Senza lo Stato l’individuo non ha identità e il popolo è una moltitudine informe” (BARBERA 1997: 29). Per conseguenza, i diritti dell’uomo “vengono fatti derivare esclusivamente dalla volontà dello Stato” (BONGIOVANNI 1997: 83). La dottrina dello «Stato etico», sostenuta prevalentemente da Hegel, vede nello Stato un fine anziché un mezzo e afferma che è l’uomo a vivere per lo Stato e non viceversa. Per Hegel lo Stato è un ente originario, antecedente e primario rispetto all’individuo, che ha una sua specifica identità e che progredisce incessantemente verso la perfezione, indipendentemente dalla volontà dei singoli individui.
Lo Stato etico è il fine assoluto, che trascende i singoli individui, i quali non sono fini in se stessi, ma acquistano valore soltanto in quanto inseriti nello Stato (VOLPE 2000: 49). Tale posizione, che si suole fare risalire ad Aristotele, è stata condivisa tanto dell’idealismo quanto del materialismo, come anche dal nazionalsocialismo. In ogni caso l’individuo non viene visto come soggetto in sé, compiuto ed autonomo, bensì come soggetto collettivo e il bene personale viene visto come un semplice riflesso del bene generale. Sul fronte opposto si colloca l’illuminismo kantiano e il liberalismo, per i quali lo Stato è il prodotto della libera volontà dell’individuo, unico soggetto dotato di valore in sé.
Anche per Marx conta solo lo Stato. L’individuo isolato è un’invenzione della teoria utilitaristica: non c’è individuo che non sia stato generato e plasmato da una società.
Secondo Comte e Durkheim, il cui pensiero s’inserisce nella tradizione collettivistica e positivistica, i fatti sociali non sono determinati dalle azioni, dalle motivazioni, dai sentimenti e dalle coscienze individuali, che sono inosservabili e inconoscibili per lo scienziato, bensì dalle leggi sociali, le uniche ad avere valenza oggettiva e a costituire oggetto di ricerca scientifica. La società viene intesa non come un insieme di soggetti personali, bensì come una totalità, autonoma e primaria rispetto all’individuo, che le è subordinato. “È l’individuo a nascere dalla società e non la società dagli individui” (DI NUOSCIO 1996: 318). Ciò che conta è dunque la dimensione sociale e non quella individuale.
I sostenitori dell’istituzionalismo sostengono che il comportamento dell’individuo è determinato dalle norme sociali e dai ruoli istituzionali e che l’attore principale non è l’individuo, ma il gruppo e lo Stato. Tra i più autorevoli sostenitori di questa teoria si possono ricordare T.B. Veblen, S.P. Huntington, J.G. March, J.P. Olsen e H. Kelsen. Per quest’ultimo, lo Stato, in quanto persona giuridica, è ben più importante del singolo individuo. “La volontà delle singole personalità – scrive – liberano una misteriosa volontà collettiva ed una persona collettiva addirittura mistica” (KELSEN 1995: 53). In questo contesto la libertà individuale scompare: “i cittadini dello Stato sono liberi soltanto nel loro insieme, cioè nello Stato, chi è libero non è il singolo cittadino, ma la persona dello Stato” (KELSEN 1995: 54). “Alla libertà dell’individuo viene a sostituirsi, come esigenza fondamentale, la sovranità popolare o, che è lo stesso, lo Stato autonomo, libero” (KELSEN 1995: 55).

8.2. Le teorie egalitarie dello Stato
In epoca pre-statale tutte le società umane erano di tipo egalitario, non nel senso che tutte le persone erano uguali, ma nel senso che nessuno nasceva ricco o povero, potente o sottomesso, libero o schiavo, dominante o dominato. Con l’affermazione delle nazioni e degli Stati la società egalitaria è scomparsa, ma non sono scomparse le idee che l’egalitarismo sia un bene, che le persone sono soggetti di diritti inalienabili e imprescrittibili e che lo Stato non è affatto superiore a questi diritti, ma ha anzi una funzione strumentale nei loro confronti, ed è su queste idee che poggiano tutte le teorie egalitarie dello Stato.
Tra i primi teorici dell’egalitarismo possiamo ricordare i sofisti (si pensi a Protagora), che, per alcuni versi, rappresentano i precursori del pensiero illuminista e giusnaturalista, dal quale prendono origine le costituzioni moderne e le proclamazioni dei diritti dell’uomo e del cittadino.
Nella stessa direzione si muove l’economia classica. Quando Adam Smith afferma, infatti, che ogni uomo è il giudice migliore del suo proprio interesse e che il consumatore è in grado di scegliere, tra le alternative che gli si offrono, quella a lui più conveniente, in realtà sta dichiarando la sua fiducia nelle capacità di discernimento dell’individuo sul piano economico e, perché no?, anche su quello morale.
Anche il comportamentismo politico di Lasswell e Kaplan pone in risalto il ruolo dell’individuo nella sfera decisionale privata e pubblica.
E non va dimenticato il contrattualismo. Alla base della teoria del contratto, infatti, “sta l’idea che non l’individuo è il prodotto della società ma è la società il prodotto dell’individuo” (BOBBIO 1999: 377). Dietro l’idea del «contratto» si può vedere, tuttavia, una concezione negativa dell’individuo e un senso di sfiducia sulle sue capacità di autogovernarsi. È a causa dei suoi limiti intrinseci, infatti, che l’uomo deve delegare i suoi diritti al monarca. “Se gli uomini fossero angeli – osserva Hamilton – non occorrerebbe alcun governo” (Il Federalista, p. 458). È la stessa concezione negativa dell’individuo che sta alla base delle moderne democrazie rappresentative.
Una delle correnti di pensiero in cui trovano particolare accoglienza i diritti dell’individuo è il liberalismo. Abbiamo già avuto modo di osservare che per Locke scopo del governo è quello di tutelare gli interessi dei singoli cittadini. Non dissimile è la posizione di Humboldt e Constant, i quali ritengono che il vero protagonista della civiltà e del progresso sia l’individuo e non lo Stato e auspicano che egli venga protetto da ogni forma di sopraffazione e tutelato nei suoi diritti, primo fra tutti quello della libertà, che deve essere limitata il meno possibile dallo Stato. Anche per Green, è bene tutto ciò che mira a realizzare, nella maggiore misura possibile, le facoltà proprie dell’uomo, e tutto ciò che promuove la persona umana e la rende quello che dovrebbe essere: una creatura simile al suo Dio.
Per i liberali, i protagonisti della storia sono gli individui, non gli Stati. L’ordine del mercato e il sistema giuridico di una popolazione nascono dalle esigenze pratiche degli individui, che si sviluppano nel corso delle loro azioni quotidiane e nelle quali è opportuno che lo Stato interferisca il meno possibile. È la libertà del mercato che darà origine alle istituzioni sociali, e non viceversa. Lo Stato deve limitarsi a garantire il diritto alla sicurezza e alla vita dei cittadini, ma soprattutto deve salvaguardare la loro proprietà privata. “Il fine maggiore e principale del fatto che gli uomini si uniscono in società politiche e si sottopongono ad un governo è la conservazione della loro proprietà” (LOCKE 1998: 124). Uno Stato che imponga alcunché a chicchessia è inammissibile. Nemmeno la maggioranza ha il diritto di imporre la propria volontà ad alcuno. Quindi: massima libertà di mercato in condizioni di pace. Questo potrebbe essere lo slogan del liberalismo classico.
Tra i più ferventi sostenitori dell’individualismo dobbiamo ricordare J.S. Mill, il quale sostiene che la funzione primaria dello Stato sia quella di promuovere i singoli cittadini: “uno Stato che rimpicciolisce i suoi uomini perché possano essere strumenti più docili nelle sue mani, anche se a fini benefici, scoprirà che con dei piccoli uomini non si possono compiere cose veramente grandi” (1997b: 133). Mill diffida dell’egualitarismo democratico e afferma che è bene concedere a tutti uguaglianza di opportunità e poi lasciare che i migliori emergano. I cittadini verranno allora ordinati non solo secondo il loro censo, ma anche secondo le loro abilità manuali e alla loro cultura, dando la preferenza a quest’ultima.
Secondo Mill, la società deve essere governata da rappresentanti eletti a suffragio universale, con poche eccezioni (gli analfabeti, gli assistiti dal comune), e i voti dei cittadini devono avere un peso diverso in proporzione al loro valore. Naturalmente lo Stato peggiore è quello che ostacola la crescita dei cittadini, cioè il dispotismo: “Ovunque il dispotismo della consuetudine si erge a ostacolo del progresso umano, ed è in costante antagonismo con quella disposizione a tendere verso qualcosa che sia migliore dell’abitudine, chiamata a seconda delle circostanze, spirito di libertà o di progresso o di innovazione” (MILL 1997b: 81). Il governo paternalistico è il più dispotico di tutti i governi, perché tratta i cittadini come bambini.
Ai giorni nostri c’è ancora chi parla dell’individualismo in termini positivi. Ha scritto Salvador Giner: “Uno dei compiti più seri che oggi dobbiamo affrontare è quello di creare buoni cittadini, ossia soggetti attivi e responsabili, in luogo di gente indifferente alla causa comune; cittadini che non si scoraggino di fronte alle difficoltà della vita politica democratica e disposti a difendere con fermezza i suoi lati positivi e a riformare quelli negativi” (1998: 98). Da parte sua, A. Giddens indica nell’autonomia e nello sviluppo individuale “l’obiettivo principale” (1999: 125) delle nostre democrazie. Sulla stessa linea si colloca Murray Bookchin, il quale, nel descrivere il suo modello municipalista, afferma la propria fiducia nel cittadino con queste parole: “Ogni cittadino è considerato competente in materia di affari pubblici e addirittura viene incoraggiato ad occuparsene. Viene perciò fornito ogni mezzo atto a favorire una piena partecipazione intesa come processo educativo ed etico che trasforma la latente capacità del cittadino in una realtà effettiva” (1993: 53).
In generale, i principi dell’individualismo sono declamati nelle Repubbliche, nelle Democrazie e in tutti i paesi che si definiscono pluralisti e progressisti. Alle enunciazioni di principio, tuttavia, spesso, non seguono i fatti e l’individualismo rimane lettera morta. All’interno della teoria individualista albergano due principali linee di pensiero: l’una moderata, l’altra radicale. Gli individualisti moderati (come Nozick) vogliono che i poteri dello Stato siano ridotti al minimo e le libertà degli individui ampliate al massimo; mentre gli individualisti estremi (come Stirner) rifiutano lo Stato e sostengono l’anarchia, oppure (come Nock) vedono nello Stato un nemico da abbattere.
Certamente è nell’area anarchica che troviamo la più appassionata difesa dell’individuo e dei suoi diritti. Secondo Godwin, lo Stato è solo uno strumento e l’obiettivo della politica è quello di educare i cittadini alla felicità e all’indipendenza: “Senza indipendenza gli uomini non possono essere né saggi né utili né felici. Di conseguenza la condizione più desiderabile per l’umanità è quella in cui viene mantenuta la sicurezza generale, con la minor violazione possibile dell’indipendenza individuale” (GODWIN 1997: 64-5). Tra i principali fattori che si oppongono all’indipendenza individuale, gli anarchici annoverano la diseguale e iniqua distribuzione della ricchezza e della proprietà privata, che sarebbe supportata dallo Stato. Perché possa sussistere il diritto alla proprietà, dicono gli anarchici, deve esistere anche un principio di esclusione ed è soprattutto a questo secondo che viene orientata la forza dello Stato: essa tutela i proprietari dalle prevedibili rivendicazioni e pretese da parte dei nullatenenti. Ecco perché l’anarchico Errico Malatesta ha definito lo Stato “il gendarme dei proprietari privati”. Se così è, ne consegue che i poveri non hanno avuto parte alcuna, né interesse alcuno nella formazione dello Stato. L’interesse è solo dei ricchi. Per Malatesta, lo Stato corrisponde alla totalità delle istituzioni pubbliche, che si arrogano, usurpandolo al legittimo detentore che è il popolo, il potere di creare le leggi e di imporle a tutti, anche con l’uso della forza.
Ma lo Stato, più che un complesso organico, è “un aggregato di individui” (GODWIN 1997: 102). Il governo ideale dovrebbe essere costituito da piccole comunità organizzate secondo i principi della democrazia partecipativa e in modo federale, ma al consiglio federale si dovrebbe ricorrere il meno possibile e solo in casi eccezionali. Finché ci sarà un governo forte gli individui non saranno autonomi e indipendenti nel giudizio, e finché gli individui non saranno autonomi ci sarà necessità dello Stato: “La società è prodotta dai nostri bisogni, e il governo dalla nostra malvagità” (GODWIN 1997: 103).
Alla fine, Godwin auspica la fine dello Stato e l’autogoverno dei cittadini: “Il governo non può sussistere se non sulla fiducia, come d’altro canto la fiducia non può esistere senza l’ignoranza. I veri sostenitori del governo sono i deboli e i disinformati, non i saggi. Le basi del governo si sgretoleranno quindi di pari passo con il regredire della debolezza e dell’ignoranza. Si tratta tuttavia di un evento che non deve essere considerato con allarmismo. Uno sconvolgimento di questo genere costituirebbe la vera eutanasia del governo” (GODWIN 1997: 104-5).

7. Lo Stato duale

I diversi tipi di governo che sono stati realizzati dall’uomo nel corso dei tempi (imperi, monarchie, signorie, principati, oligarchie, repubbliche aristocratiche e censitarie, federazioni, confederazioni e perfino le moderne DR) sono accomunati da due fattori che possiamo considerare caratteristici di tutte le forme di governo note. Il primo fattore consiste nel fatto che vengono riconosciuti come importanti protagonisti della politica solo le comunità (la famiglia, la banda, il clan, la tribù, la corporazione, l’azienda, la classe, l’istituzione, la città, il popolo, lo Stato), e non il soggetto individuale o il singolo cittadino, con la conseguenza che la ragion di Stato prevale sulla ragione della persona, il gruppo prevale sui soggetti umani in carne ed ossa.
Alla base dello Stato duale c’è l’idea che il cittadino sia secondario al gruppo e alle istituzioni. A partire da Aristotele, quest’idea è stata ripetuta incessantemente da molti studiosi nel corso dei secoli e continua ad avere un’enorme fortuna e un grandissimo seguito. La concezione aristotelica, secondo la quale “lo Stato esiste per natura ed è anteriore a ciascun individuo” (Pol. I, 1253a) è stata fatta propria da una certa tradizione cristiana e da tutte le cosiddette teorie olistiche dello Stato, che vanno dall’idealismo hegeliano al materialismo marxiano, dallo spiritualismo al nazionalismo, dal funzionalismo allo strutturalismo, dal collettivismo al positivismo, dall’organicismo all’istituzionalismo. Da queste correnti di pensiero l’individuo non viene visto come essere compiuto ed autonomo, bensì come soggetto collettivo, e il bene personale viene concepito come un semplice riflesso del bene generale.
Il secondo fattore che caratterizza lo Stato è in parte una conseguenza del primo: consiste nel riconoscimento di una proprietà privata di tipo familiare, trasmissibile cioè di padre in figlio, e indipendente dal lavoro. Il risultato è che tutte le forme di governo disegnano società che chiamerò duali, perché vi possiamo facilmente distinguibili una minoranza dominante e una maggioranza dominata. Grazie al diritto patrimoniale di famiglia, può avvenire che un instancabile lavoratore sia povero e un fannullone ricco. In passato la politica patrimoniale ha sempre costituito una rilevante fonte di potere per i capiclan. Ora, i capiclan più potenti, che hanno avuto la fortuna di conservare o di accrescere il proprio patrimonio per un certo numero di generazioni, non di rado hanno ceduto alla tentazione di alimentare una cultura autocelebrativa e favorire la costruzione di genealogie, tradizioni, miti e racconti, allo scopo di avvalorare la superiorità della propria stirpe e la legittimità della propria posizione di dominio per diritto di nascita.
Nello Stato duale le condizioni sociali delle persone sono subordinate a quelle delle rispettive famiglie, talché si creano due ben distinte classi sociali. Per dirla con le parole di Bookchin, “la classe dominante è uno strato sociale privilegiato che possiede o controlla i mezzi di produzione e sfrutta una più ampia massa di persone, la classe dominata, che fa funzionare queste forze produttive” (BOOKCHIN 1995: 26).
Così, a poco a poco, quella che nelle società pre-statali era una semplice posizione di forza, nello Stato si trasforma in diritto, il diritto di stabilire chi nasce per comandare e chi per servire. Ciò è avvenuto nella società faraonica (il figlio del faraone è destinato a succedere al padre), presso gli antichi ebrei (il figlio del sacerdote sarà sacerdote), i greci (la donna e il meteco non possono occuparsi di politica), i romani (il figlio del patrizio e del plebeo nascono in condizioni e con prospettive di vita radicalmente diverse), le società schiaviste (il figlio della schiavo nasce schiavo), il mondo feudale (il figlio del vassallo è vassallo, il figlio del servo della gleba servo della gleba) e gli Stati monarchici moderni (il figlio del nobile è nobile).
Alla fine, lo Stato duale può essere concepito come una “macchina di dominio controllata da una minoranza organizzata, pronta a usare la violenza per piegare alla sua volontà la massa non organizzata” (PELLICANI 1998: 786). E poiché questo cliché è osservabile praticamente in tutti gli Stati, qualcuno ha ritenuto di doverlo considerare un fatto «normale», una sorta di legge di natura che bisogna accettare senza tante storie. Così la pensa, per esempio, Althusius, il quale vede nel governo dello Stato un organo naturale, che non necessita di alcuna legittimazione: volerlo legittimare sarebbe come concepire un corpo senza testa. Secondo il pensatore tedesco, un’eventuale uguaglianza fra tutti i cittadini non solo aprirebbe le porte all’anarchia, ma sarebbe anche contro natura. Coerentemente con tale concezione, Althusius può affermare che “l’eterna legge comune consiste nel fatto che in qualsiasi specie di associazione alcuni sono governanti o superiori, altri sudditi o inferiori” (Politica I,11) (tratto da DUSO 1999: 62).
Anche se partono da presupposti diversi, quasi tutti i pensatori politici (ad eccezione degli anarchici e dei democratici diretti, che sono una risibile minoranza) sono arrivati alle stesse conclusioni di Althusius e, infatti, ancora oggi non riusciamo a concepire una formula politica migliore della DR.

7.1. Lo Stato duale come fatto «normale»
Lo Stato duale ha dominato l’intero arco della storia. “In ogni civiltà vi è una minoranza di spiriti nei quali si incarnano, più o meno pienamente, i valori propri di quella civiltà, e una massa inerte, che segue i suoi istinti, sensibile soltanto alle influenze collettive, che non riflette su nulla, o soltanto su qualche obiettivo personale immediato, e, a dire il vero, manifesta assai poco, o per nulla affatto, la personalità umana” (LECLERCQ 1965: 109).
Lo Stato duale è così diffuso che si tende ormai a concepirlo come un fatto del tutto naturale e normale. “Si sa – scrive J.S. Mill (1997a: 98) – che in ogni nazione si incontra una maggioranza di poveri e una minoranza di ricchi”, ossia una maggioranza di subordinati e una minoranza che detiene il potere. Questo fenomeno è davvero naturale? Noi abbiamo visto che così non è e sappiamo che la società duale si è affermata proprio con lo Stato circa 5 Kyr fa e che, fino a quel momento e per decine di Kyr, l’uomo è vissuto in società egalitarie di tipo tribale. Sappiamo anche che lo Stato ha avuto origine da azioni di forza, che il condottiero vittorioso ha diviso il bottino di guerra fra i capi tribù che lo hanno sostenuto (dando così origine all’istituto della proprietà privata), e ha imposto la sua legge sull’intera popolazione.

7.2. Dominanti e dominati
Non avendo alcuna preoccupazione per la soddisfazione dei propri bisogni primari, i governanti possono dedicarsi unicamente alla conservazione e all’incremento del proprio potere politico, da cui traggono non solo ricchezza, ma anche gloria e ogni genere di vantaggi.
I governati, dal canto loro, essendo esclusi dal potere politico, hanno altro a cui pensare. I più indigenti hanno il loro da fare per sbarcare il lunario alla meno peggio. Alcuni di essi, spogliati di ogni dignità, sono costretti ad elemosinare un lavoro e accettare qualunque condizione, pur di rimediare il minimo per la sussistenza. Altri non trovano di meglio che chiedere la carità. Privati di libertà e defraudati del naturale sentimento di orgoglio, di cui ciascun uomo libero è dotato, costoro sono alla mercé dei potenti, ai quali sono disposti a concedere tutto in cambio di un tozzo di pane o di qualche piccolo favore, o ripiegano verso occupazioni illecite o degradanti (criminalità, traffico di droga, prostituzione), oppure si accalcano intorno ai potenti e competono per occupare i posti offerti dalla pubblica amministrazione (istruzione, sanità, poste, esercito, trasporti, ecc.). Pochissimi sono coloro che intraprendono iniziative a titolo personale e indicano nuove vie. Sono i cosiddetti creativi: i più si bruciano cammin facendo, e solo pochissimi finiscono nel novero dei grandi uomini, di coloro cioè che, nel bene e nel male, fanno la storia.

7.3. La logica di gruppo
Nello Stato duale, i bisogni individuali vengono posti in secondo piano rispetto alla logica del gruppo. Potrà essere la famiglia o l’azienda, il partito o la chiesa, la patria o il re, in ogni caso c’è qualcosa di superiore di fronte alla quale l’individuo è chiamato a sacrificarsi. L’unica cosa che conta è il gruppo organizzato, il «carro». Un individuo che sia fuori da un carro è praticamente privo di potere e di valore. L’ingresso nel carro è sottoposto a regole precise ed ha un costo, che il povero non può pagare. Chi possiede i requisiti necessari ed è disposto a pagare il prezzo richiesto, può certamente salire sul carro, ma nel prezzo è anche previsto che ogni singolo membro deve piegarsi al supremo interesse del carro. Sì, è proprio così: anche il carro ha i suoi interessi, che in genere corrispondono agli interessi di quei pochissimi che sono alla guida del carro stesso. Così, al posto dei valori individuali si vanno affermando quelli del conformismo, dell’appiattimento e della massificazione, che valgono per tutti i membri del carro, ad eccezione dei conducenti, che peraltro sono le uniche persone relativamente libere.

7.4. Lo scontento delle masse e la nascita del diritto
Le società duali hanno dei punti deboli, che ne insidiano la stabilità intrinseca. Essi consistono nei conflitti interni ed esterni che inevitabilmente si sviluppano, non solo a causa dello scontento dei poveri e degli emarginati, che reclamano più diritti, ma anche a causa della competizione che spesso si accende nella cerchia delle famiglie aristocratiche per la conquista di nuove fette di potere o del potere supremo e, infine, a causa della competizione fra Stati. Il rischio è, da un lato, la destabilizzazione sociale, il disordine, il caos e l’incapacità di fronteggiare in modo adeguato un eventuale attacco esterno, dall’altro lato, la guerra. Di qui la necessità di un diritto, che regoli i rapporti fra le parti sociali, e di un apparato militare a scopo difensivo-offensivo.
Talvolta l’esasperazione di masse popolari emarginate e oppresse “è esplosa in devastanti rivolte che hanno scosso dalle fondamenta il sistema di dominio al quale erano assoggettate. Del resto, l’unica arma a disposizione delle vittime della violenza di Stato era la violenza contro lo Stato. La quale, per altro, solo raramente è stata in grado di spezzare lo spietato meccanismo di sfruttamento creato dalle élites del potere” (PELLICANI 1998: 789). Il più delle volte il popolo si è dovuto accontentare di concessioni temporanee, ma in qualche caso è riuscito a sostituire la vecchia classe dirigente con un’altra. Questo è quanto è accaduto, per esempio, nell’Inghilterra del XVII secolo, dove i sudditi riuscirono ad ottenere “il primo governo parlamentare della storia sulla base dell’esplicito riconoscimento che l’esercizio del potere di coercizione dello Stato doveva essere regolato da leggi scritte, e che queste dovevano contemplare la tutela della vita, della persona e della proprietà dei governati” (PELLICANI 1998: 789). Per la prima volta, anche il re era soggetto alla legge, mentre le leggi erano soggette alla costituzione, la quale, a sua volta, era legata alla volontà del popolo.
Nasceva così il cosiddetto Stato di diritto, che determinava un nuovo equilibrio tra le classi sociali, diverso, certo, da quello che aveva caratterizzato le monarchie assolute, ma legato ancora alla logica del gruppo. Nello Stato di diritto una fetta del potere del re passava nelle mani della nobiltà e dell’aristocrazia economica, ma il popolo rimaneva comunque escluso dal potere e la società rimaneva comunque duale. Mai il popolo è riuscito ad abbattere la società duale e a sostituirla con una vera democrazia.

7.5. Anche i paesi «democratici» sono duali
Nonostante ci si aspetterebbe il contrario, lo Stato duale è osservabile anche nei sistemi cosiddetti democratici, che pure riconoscono il principio dell’eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge e il suffragio universale. Infatti, benché a tutti i cittadini sia riconosciuta la facoltà di scegliere, da una lista di candidati e attraverso un voto segreto, chi dovrà governarli, il tipo di governo che ne risulta non è sostanzialmente dissimile da quello delle repubbliche aristocratiche o censitarie. Infatti, se si tien conto che l’accesso alle liste è in pratica accessibile solo ai membri delle classi più ricche, che la scelta dei candidati spetta al partito, quindi viene decisa dall’alto, che agli elettori non è consentita la partecipazione diretta alla politica, ne consegue che la società rimane divisa in cittadini di serie A, abilitati a governare, e cittadini di serie B, ai quali l’azione politica è interdetta. Così, anche nei governi costituzionali “si riscontra il medesimo fatto: la piccola classe dei governanti che comanda a quella vastissima dei governati” (RENSI 1995: 27).
La netta distinzione fra governanti e governati fa sì che lo Stato corrisponde di fatto ai governati e la ragion di Stato alla ragione dei governanti. Lo Stato diventa, insomma, il paravento dietro cui si nascondono i governanti, e quando si sostiene che lo Stato costituisce il valore supremo e la ragion di Stato è superiore alla ragione dei singoli cittadini, in realtà si afferma che i singoli cittadini devono sottomettersi ai governanti e, in caso di bisogno, sacrificarsi per essi.
Oggi gli Stati, ovvero i governanti, sono i principali protagonisti della politica. È come se il pianeta fosse abitato non già da miliardi di individui che interagiscono, bensì di poche migliaia di organizzazioni politiche e qualche centinaio di Stati, che si rapportano fra loro come se fossero soggetti personali e costituiscono i soli soggetti politici che contano, che fanno le leggi, che amministrano la giustizia, che decidono cosa fare, come e quando, che fissano le regole del mercato, che impongono i valori etici e i canoni della moda, che gestiscono la politica internazionale, che dichiarano la guerra e fanno la pace. Dire «Bush dichiara guerra a Saddam» è la stessa cosa che dire «gli americani dichiarano guerra agli iracheni». Questa è la realtà DR. Il popolo americano e quello iracheno spariscono dietro la figura del presidente eletto e su tutti gli interessi individuali prevale il presunto supremo interesse della nazione, in nome del quale si mandano i cittadini a morire e si spendono miliardi di dollari, il che dimostra che, in fondo, DR e autocrazie sono più simili di quanto si possa immaginare. Sono entrambe società duali.

7.6. La società duale nel pensiero di Veblen
L’immagine della società duale emerge chiara in un libro di Thornstein Veblen, un economista e sociologo americano, il quale vi affronta la questione di una minoranza, la cosiddetta classe agiata, che esercita il potere in pressoché tutte le società note. Correttamente, Veblen osserva che questa classe “è emersa gradualmente durante il trapasso dal primitivo stato selvaggio alla barbarie; o più precisamente, durante il trapasso da un’abitudine di vita pacifica a un’altra costantemente bellicosa” (VEBLEN 1999: 10), vale a dire agli inizi del Neolitico, quando gli uomini cominciavano a competere e a combattersi. Questi nostri antichi antenati erano ancora molto incivili e i loro rapporti erano regolati principalmente dal principio di forza, avendo in vista obiettivi immediati. “Le due caratteristiche barbariche, la ferocia e l’astuzia, contribuiscono a formare il temperamento e l’atteggiamento spirituale di rapina. Esse sono l’espressione di un abito mentale strettamente egoistico. Entrambe sono altamente utili al vantaggio individuale in una vita che mira al successo antagonistico” (ivi p. 211).
È in questo contesto che si afferma la figura del guerriero, il quale altro non è che il naturale discendente del cacciatore. Entrambe le figure, quella del guerriero e del cacciatore, sono accomunate dalla medesima natura predatoria: “il guerriero e il cacciatore raccolgono dove non hanno seminato” (ivi p. 15). Col diffondersi delle guerre, la forza viene elevata a valore supremo, mentre il lavoro finisce per assumere “un carattere detestabile in virtù della indegnità che gli viene attribuita” (ivi p. 17). È questa che Veblen chiama “fase predatoria della civiltà”, che si ha “quando il combattimento è diventato la nota dominante nella concezione comune della vita; quando l’apprezzamento di uomini e cose da parte del senso comune è arrivato ad essere un apprezzamento dal punto di vista della lotta” (ivi p. 19). Ed è a questo punto che nasce l’idea di proprietà privata: quello che ho conquistato con la forza mi appartiene e con la forza lo difendo. “La proprietà ebbe origine come bottino considerato quale trofeo della razzia fortunata” (ivi p. 24). Un manipolo di guerrieri che, rischiando la vita, riescono a depredare i beni di una divinità straniera, ritornati fra la loro gente con le mani sporche di sangue, ma cariche di bottino, vengono accolti come eroi. Col tempo essi proveranno ad impegnarsi ad impossessarsi di un territorio nemico e se lo spartiranno divenendone proprietari. In ogni caso, l’azione violenta del guerriero raramente è finalizzata al procacciamento del necessario per la sussistenza: per lo più è sostenuta da una sete di gloria. Sì, la proprietà è legata al desiderio di gloria e il “possesso della ricchezza conferisce onore” (ivi p. 24). È così che si affermerebbe la “classe agiata”.
Al guerriero e al cacciatore sono richieste doti non solo di intelligenza e di vigore fisico, ma anche di elevata aggressività, determinazione e mancanza di scrupoli, doti che, secondo lo studioso americano, ritroviamo negli imprenditori e negli uomini di affari moderni. “Il finanziere ideale è simile al delinquente ideale in quanto volge senza scrupoli persone e cose a suoi fini, e trascura spregiudicatamente i sentimenti e i desideri degli altri nonché gli effetti più remoti delle sue azioni” (ivi p. 183). La novità, rispetto al passato, è che, apparentemente, si usa il diritto al posto della forza, ma la sostanza rimane invariata.
Adesso “la proprietà accumulata sostituisce sempre più i trofei delle gesta predatorie” (ivi p. 26) e si va affermando una nuova mentalità centrata sull’acquisizione di ricchezza con ogni mezzo. “Diventa indispensabile accumulare, acquistare proprietà, per conservare il proprio buon nome […]. Il possesso della ricchezza, che all’inizio era considerato semplicemente prova di capacità, nell’opinione popolare diventa esso stesso un atto meritorio. La ricchezza è ora essa stessa intrinsecamente onorevole e conferisce onore a chi la possiede” (ivi p. 27). Ma il possesso di ricchezza non è sufficiente per acquisire potere. “Per cattivarsi e conservare la stima degli uomini non basta possedere semplicemente ricchezza o potenza. Ricchezza e potenza devono essere messe in evidenza, poiché la stima è concessa solo di fronte all’evidenza” (ivi p. 32). Solo la ricchezza ostentata genera la gerarchia sociale. “La norma universale dello schema di vita della comunità di rapina è il rapporto fra superiore e inferiore, nobile e plebeo, persone e classi dominanti e subordinate, padrone e schiavo” (ivi p. 231).
Inizialmente la ricchezza appartiene al condottiero che l’ha conquistata e che mostra di essere in grado di difenderla, il quale, di norma, viene proclamato re e signore di ciò che ha conquistato. Le sue virtù sono cantate dai poeti e la sua fama viene diffusa in ogni dove. Egli acquista uno status straordinario e tutta la sua stirpe viene elevata alla sfera divina. Il suo regno gli appartiene ed egli lo può trasmettere ai suoi figli. “Con un ulteriore raffinamento, la ricchezza acquistata passivamente per eredità dagli avi o da altri progenitori diventa adesso persino più onorifica che la ricchezza acquistata dal possessore con sforzi” (ivi p. 27) e diventa motivo di nobiltà.
Il nobile deve possedere non solo ricchezze inanimate, ma anche schiavi, i quali sono impiegati in parte in lavori produttivi, in parte nella cura del corpo del proprio padrone e della sua casa, ma anche per creare una certa immagine di grandiosità, attraverso la musica, la letteratura, l’arte, e così via. “Il possesso e il mantenimento di schiavi impiegati nella produzione di beni stanno a dimostrare ricchezza e coraggio, ma il mantenimento di servi che non producono nulla dimostrano una ricchezza e una posizione ancora più alta” (ivi p. 52). Il ricco è colui che vive nell’agiatezza senza la necessità di lavorare e che, a poco a poco, riesce ad imporre i suoi valori. Nelle società evolute, infatti, conta principalmente ciò che non è legato alla soddisfazione dei bisogni primari e alla sussistenza, ma che, anzi, si distingue nettamente da questa «bassa» necessità, come la musica, la letteratura, l’arte, lo sport, la moda, e anche la guerra, tutte attività che ineriscono alla sfera nobiliare.

6. Popolo e cittadinanza

Con l’affermazione dello Stato si apre l’era delle istituzioni. Lo Stato è un’istituzione composta da istituzioni. In questa sede ne prenderemo in considerazione due fra le principali, ovverosia il popolo e il cittadino.

6.1. Il popolo
Non c’è Stato senza popolo, ma ciò non vuol dire che ci sia una sola idea di popolo. Gli antichi greci chiamano demos gli uomini liberi di una polis, non si sa se nella loro totalità o con particolare riferimento alle classi più povere. Presso i Romani, bisogna distinguere: nel periodo monarchico, il termine populus indica la massa dei cittadini in grado di comprasi un’armatura e combattere nella fanteria pesante; nel periodo repubblicano, il populus è diviso in patrizi e plebei per divenire, verso la fine della repubblica, quasi sinonimo di plebe, distinto tanto dalla classe nobiliare quanto dai membri dei paesi conquistati; dopo l’editto di Caracalla (212), che concede la cittadinanza a tutti i sudditi liberi dell’impero, populus sono tutti i cittadini in contrapposizione coi ceti dominanti e l’aristocrazia. Quest’ultima accezione sarà conservata nell’età medievale e moderna, fino a tutto l’Ottocento: popolo sono le masse di coloro che devono lavorare per vivere e che si contrappongono ad un altro popolo, molto più piccolo, quello dei ceti ricchi e privilegiati. Sono due popoli diversi che convivono all’interno della stessa nazione, due popoli distinti dalla famiglia di origine e dal censo: in Francia li chiamano «Stati».
A partire dalla Rivoluzione francese, il termine popolo è venuto a coincidere con la nazione stessa nella sua totalità, ed è divenuto la fonte della sovranità dello Stato, prendendo il posto che prima era di Dio. In realtà, per molti anni dopo la Rivoluzione, la cosiddetta «sovranità popolare» sarà, di fatto, esercitata dalla borghesia. È solo in seguito alle rivolte del 1848 che si è affermato, oltre alla Repubblica, “il suffragio universale maschile, portando gli elettori francesi da 250.000 a 9.000.000” (FACCHI 1997: 110). Attualmente il termine popolo viene usato nel senso caro a Kelsen, cioè come concetto giuridico legato alla cittadinanza e indicante “l’appartenenza a un unico ordinamento politico e giuridico” (FACCHI 1997: 114). Nel gergo comune esso si riferisce alla totalità dei cittadini di uno Stato, intesi per lo più come i residenti stabili di quello Stato, talvolta con l’esclusione, esplicita o implicita, delle personalità di maggiore spicco che, in quanto élite dominante, fanno parte a sé stante.

6.2. Il cittadino
L’idea di cittadinanza si è sviluppato di pari passo a quella di popolo, con la quale costituisce un tutt’uno. Ma qual è il significato di cittadinanza? “Da sempre ogni gruppo di persone chiuso verso l’esterno tende a distinguere i propri membri da chi non vi appartiene e a tracciare una linea di demarcazione tra chi è dentro e chi è fuori. Se poi il gruppo è anche solo minimamente organizzato, al suo interno vengono stabiliti ruoli e funzioni, diritti e doveri, ma anche privilegi per chi è incluso e discriminazioni per chi è escluso. Ciò vale a maggior ragione per quel gruppo politicamente strutturato che si chiama Stato. È questa la funzione peculiare della cittadinanza: quella di fornire un criterio di inclusione e di esclusione tra chi è cittadino di uno Stato e ha una serie di diritti, e chi non è cittadino e ne viene escluso. La cittadinanza è quindi una condizione (o status) dell’individuo appartenente a uno Stato, alla quale viene attribuito un insieme di diritti e di doveri” (BELVISI 1997: 117). In ultima analisi, la cittadinanza è una sorta di marchio, che indica l’appartenenza di una persona ad uno Stato e s’iscrive in una logica «recinzionista».
Il concetto di c. entra nel mondo contemporaneo con la Rivoluzione francese, anche se affonda le proprie radici nel mondo antico. Nell’antica Grecia, ad esempio, solo il cittadino può essere riconosciuto uomo a pieno titolo e soggetto di diritto. Secondo Aristotele, autentico cittadino è solo colui che partecipa “alle funzioni di giudice e alle cariche” della polis (Pol., 1275a, 22-4); mentre “è alla stregua di un meteco chi non partecipa agli onori” (Pol., 1278a, 39). Ma chi può occuparsi di politica se non colui che dispone di sufficiente tempo libero e che non è costretto a lavorare dalla mattina alla sera per la sussistenza? Di fatto, dunque, è cittadino chi può contare su qualche proprietà e sul lavoro di schiavi. Libero da incombenze lavorative, costui potrà dedicarsi agli affari della polis ed essere considerato vero uomo. Si tratta, come si può ben vedere, di una concezione aristocratica di cittadinanza.
Agli inizi della storia romana, la cittadinanza è un attributo pertinente alle famiglie che discendono dai padri fondatori dell’Urbe (gens), in pratica i patrizi, ed è dunque un titolo nobiliare. Poi, a partire dalla rivoluzione plebea del IV secolo a.C., patrizi e plebei si collocano su un piano di parità e la cittadinanza finisce per divenire un diritto di tutti i paterfamilias della città di Roma. Con la concessione dello status di cittadino a tutti gli uomini adulti dell’impero (editto di Caracalla del 212 d.C.) la cittadinanza si svuota della sua valenza onorifica e si riduce a poco più di una semplice etichetta formale, che designa la massa popolare, distinguendola dall’élite dominante.
Quest’idea di cittadinanza si conserva per tutto l’alto medioevo, ma comincia a cambiare nell’età dei Comuni, allorché si registra una sorta di ritorno al passato. Il cittadino comunale, infatti, è un uomo libero, che si è affrancato dall’ordinamento gerarchico feudale e vive del proprio lavoro all’interno di un contesto urbano. La differenza con il cittadino di Aristotele sta proprio in questo diverso rapporto col lavoro, ma le somiglianze sono notevoli. Per Marsilio da Padova (1324), per esempio, cittadino “è colui che nella comunità civile partecipa secondo il proprio rango al governo o funzione deliberativa o giudiziaria” (1975: I,12,4). Al pari di Aristotele, Marsilio esclude dalla cittadinanza stranieri, servi, donne e minorenni, e conferisce il potere legislativo all’intero corpo dei cittadini (o alla maggioranza di essi). Per entrambi poi il cittadino non è ancora concepito come individuo singolo, libero e autonomo, bensì come membro di una comunità, di un ceto o di una corporazione, e i suoi diritti politici dipendono dall’appartenenza e dal censo.
Questo quadro cambia ancora con l’affermarsi delle monarchie nazionali, dove il cittadino è sostanzialmente un suddito, i cui doveri e la cui subordinazione nei confronti della gerarchia sono “i motivi dominanti, giustificati e sostenuti dalla dottrina religiosa” (BENDIX 1991: 774). Secondo Bodin (1576) “ciò che fa il cittadino è l’obbedienza e la riconoscenza del suddito libero per il suo principe sovrano, e la protezione, la giustizia e la difesa del principe nei riguardi del suddito; ed è questa la vera ed essenziale differenza fra cittadino e straniero” (1964: 304). Contrariamente a quanto affermato da Aristotele e Marsilio, Bodin ritiene non essenziale per lo status di cittadino la partecipazione alla vita politica, mentre condivide la concezione romana, secondo la quale la cittadinanza va riservata al paterfamilias.
La situazione cambia ancora dopo che Hobbes, aprendo le porte all’individualismo moderno, afferma che “essere uomo è il presupposto per ogni ulteriore status, e non viceversa” (BELVISI 1997: 125). Il nuovo orizzonte ideologico, però, non riconosce ancora l’individuo come soggetto di diritti inviolabili e assoluti, e bisogna aspettare Rousseau perché prenda forma l’idea di cittadino-sovrano, che gode della pienezza dei diritti politici ed è chiamato all’autogoverno, alla stessa maniera degli antichi cittadini ateniesi, ma questa volta senza vincoli di dipendenza o identificazione con lo Stato. Con Rousseau i diritti fanno parte integrante dell’individuo, il quale non deve trarli dallo Stato.
Alla vigilia della Rivoluzione francese, la società è suddivisa in tre «stati» ordinati gerarchicamente: i primi due, l’aristocrazia e l’alto clero, costituiscono una piccola minoranza di privilegiati, mentre il «terzo stato», ossia la sterminata massa dei sudditi, devono accontentarsi di minori diritti e devono lavorare per mantenere se stessi e gli altri due «stati» dominanti, ossia la società intera. Occorre notare che questa lucida analisi della società francese di fine Settecento non è opera del «Terzo stato» in generale, ma della parte più benestante e istruita di esso, la cosiddetta borghesia, all’interno della quale si va diffondendo un prepotente desiderio di contare e di avere gli stessi diritti dei primi due «stati». È la borghesia la parte più attiva della Rivoluzione, non le classi sociali più umili, che si muovono al traino e vengono coinvolte solo parzialmente e indirettamente.
Abbattendo il sistema dei «tre stati», la Rivoluzione francese dà origine ad una nuova figura di cittadino, che trae il proprio status non dall’appartenenza ad un ceto, bensì dall’essere membro dello Stato nel suo insieme (il cosiddetto Stato-nazione), e, in quanto tale, può godere di una formale parità di diritti-doveri. Adesso il titolo di cittadino è conferito alla generalità dei sudditi, sia pure con qualche limitazione (donne, minorenni e domestici rimangono esclusi dalla pienezza dei diritti politici). In atteggiamento critico con la Dichiarazione dei diritti del 1789, che esclude la donna, Olympe de Gioges redige, due anni dopo, la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina. Nulla ormai si oppone al riconoscimento dei diritti dell’uomo, come individuo, anche se, generalmente, si tratta solo di un riconoscimento teorico. Di fatto, il nuovo cittadino che emerge dalla Rivoluzione rimane legato ad una cultura di censo: cittadino è l’individuo proprietario.
È solo a partire dalla seconda metà dell’Ottocento che fra gli operai delle fabbriche e i braccianti agricoli comincia a diffondersi l’esigenza di una qualche regolamentazione che renda accettabili le condizioni del lavoro, dal che trarranno linfa vitale le teorie socialiste e i movimenti sindacali. Tende così ad affermarsi il valore della solidarietà sociale, mentre lo Stato comincia a rivolgersi non più e non solo al cittadino proprietario, bensì a tutti i cittadini, che tuttavia non sono concepiti come pure individualità, bensì come membri di comunità di vario ordine e grado (comuni, province, regioni, sindacati, chiese, categorie professionali, e via dicendo), che si sussumono nello Stato.
Il cittadino moderno non ha valore in quanto individuo e, dunque, non è prevista una sua partecipazione diretta alla politica, ma solo una partecipazione mediata dalle istituzioni, fra cui spiccano i partiti. Come singolo, un cittadino può benissimo disinteressarsi degli affari pubblici, senza perdere in dignità, come invece avveniva ai tempi di Aristotele. Si fa fatica a concepire che lo Stato non dovrebbe essere un semplice centro di potere, bensì un servizio per i cittadini. “Se si ritiene che lo Stato sia creato e legittimato dall’insieme dei cittadini – sottolinea opportunamente John Bendix – c’è poco da discutere: il ruolo dello Stato diventa quello di obbedire e di fornire servizi ai cittadini” (1991: 776). Bene, questo principio non è stato ben chiaro agli uomini almeno fino alla metà del XX secolo, e forse in parte non lo è nemmeno oggi.
In questi ultimi decenni, grazie all’affermazione del cyberspazio, della globalizzazione e del cosmopolitismo, si comincia a superare l’idea del cittadino-suddito-irresponsabile e a intravedere una realtà nuova, quella dell’individuo cosmopolita, che non è più strettamente legato ad una comunità nazionale, ma è cittadino del mondo. In questa nuova direzione si muovono molti pensatori contemporanei, come Dahrendorf (1992), Ferrajoli (1994) e Veca (1990), e non è difficile prevedere che questa strada conduca alla DD, anche se siamo ancora solo all’inizio e le resistenze da vincere sono ancora tante.

5. La storia dello Stato e l’idea di Nazione

L’uomo è naturalmente portato a vivere in piccoli gruppi legati da vincoli parentali e di prossimità, come famiglie e clan, e tutte le società più vaste e complesse del clan sono costruzioni culturali dell’uomo a partenza da situazioni contingenti. I più semplici raggruppamenti umani di tipo culturale sono la tribù, l’etnia e la nazione (qui userò questi termini come sinonimi), i più complessi lo Stato, il regno, l’impero. In essi “vi è poco di naturale o di predeterminato” (POHL 2000: 2) e la loro attuazione pratica è dovuta alla ferma volontà di una ristretta élite dominante. Nelle pagine che seguono vedremo come le idee di Stato e di Nazione hanno preso forma e si sono evoluta nel corso del tempo.

5.1. Gli antichi
Gli antichi conoscono l’idea di famiglia, clan, tribù, stirpe, etnia, razza, casato, città, regno e impero, ma non conoscono l’idea di Stato: “l’Egitto, la Cina, l’antica Caldea, non furono mai nazioni. Erano greggi guidate da un figlio del Sole, o da un figlio del Cielo” (RENAN 1998: 4). Nella Bibbia si parla di «nazioni» in riferimento ai pagani, che, in tal modo, vengono ben distinti dal popolo eletto. Col termine nazione (dal latino nasci = nascere) gli antichi romani intendono, in un primo tempo, un gruppo di persone legate da un ascendente comune, una sorta di clan, e, successivamente, un gruppo unito da legami di tipo culturale. In ogni caso, “il fine della nazione non è quello di diventare stato, ma di affermarsi e di essere riconosciuta come tale; cioè come portatrice di una particolare cultura, di particolari valori” (QUARTA 1997: 284).

5.1.1. Nazione e nazionalismo nell’età antica
“Nel momento in cui inizia la storia scritta, cioè alla metà del terzo millennio a.C., le etnie appaiono già in evidenza” (SMITH 1992: 102) e tendono a rafforzarsi soprattutto quando si trovano a competere con altre etnie. “L’etnicismo è essenzialmente difensivo. È una risposta a minacce esterne e a divisioni interne” (SMITH 1992: 127). In ogni caso, le guerre “hanno avuto il massimo impatto sulla formazione e sulla persistenza di etnie” (SMITH 1992: 95). Col diffondersi della guerra, l’idea di nazione si trasforma in ideologia di «superiorità» e assume i contorni del «nazionalismo», anche se questo termine entrerà in uso molto più tardi. Difficilmente il nazionalismo si sarebbe sviluppato nel mondo se non ci fosse stato il confronto ostile fra due o più popolazioni, e ciò è facilmente comprensibile. Infatti, quando due comunità si trovano, per esempio, a contendersi il controllo di una regione, ciascuna di esse avrà interesse a compattarsi in modo da procedere unita e coesa contro il nemico.
Anche l’incontro con civiltà molto più avanzate, nota Anthony D. Smith, non impedisce ad una etnia di sviluppare “l’intima convinzione della superiorità morale indigena” (SMITH 1992: 114). Ora è facile comprendere che un paese tecnologicamente o economicamente o militarmente più progredito sviluppi un sentimento di superiorità nei confronti di altri paesi. Meno facile è comprendere il sentimento di superiorità che si sviluppa in comunità relativamente deboli. Al primo gruppo appartengono gli egizi, i babilonesi, gli assiri, i greci, i cinesi, gli arabi; al secondo gruppo, gli ebrei.
Di norma il collante di una comunità è un’ideologia, che, almeno inizialmente, tende ad essere di natura religiosa e si esprime nella figura di un uomo divinizzato, com’è il caso del faraone egizio, o di un dio sommo, com’è il caso di Jahve ebraico, o di una figura intermedia, com’è il caso del re mesopotamico. L’elemento religioso è tale da unire molteplici tribù indipendenti in un sol popolo e crea la coscienza di nazione, specie quando si è in stato di guerra con altri popoli. Va da sé che, nel momento in cui un clan matura la consapevolezza di appartenere ad una comunità più ampia, esso avverte anche la necessità di giustificare questa appartenenza, di spiegare cioè le ragioni per cui bisogna essere fieri di appartenere a quella comunità e non ad un’altra, soprattutto quando fra più comunità c’è un clima di ostilità o di guerra. È qui che entra in scena l’ideologia «nazionalista», la quale chiama in causa la figura di tale dio o di tale re, che è dipinto come superiore ad altre divinità o ad altri monarchi e quindi viene visto come una garanzia di successo, a patto di rimanere uniti e fedeli ai comandi di quel dio o di quel re.
Se l’idea di nazione è centrata più sulla figura di un popolo sovrano che su basi territoriali, l’idea di Stato è centrata su un territorio ben delimitato, che può essere abitato anche da più nazioni, il quale è difeso da un adeguato apparato militare e controllato da parte di un apparato governativo e amministrativo. Così concepito, lo Stato può essere definito come un complesso sistema sociale, territoriale, economico, burocratico e militare, il cui fine ultimo è, di norma, quello di tutelare i ricchi tenendo a bada i poveri, oppure di creare le migliori condizioni possibili per conquistare la massima fiducia degli ottimati, e altro ancora.

5.1.2. Patria, nazione e nazionalismo
Abbiamo già illustrato il significato di nazione. Diverso è il concetto di «patria», che è usato con diversi significati a seconda dei tempi e dei luoghi. Gli antichi chiamano «patria» la Terra dei Padri, ossia quel suolo “dove ancora vive lo spirito degli antenati e riposano i loro resti mortali” (VIROLI 1995: 23). Generalmente, la patria è intesa come il luogo dove ciascuno è nato e al quale si sente legato da un invincibile sentimento affettivo. “Nessun altro luogo può avere lo stesso significato del luogo natio. Possiamo proclamare di essere cittadini del mondo, ma un particolare angolo del mondo produce in noi sentimenti che non proviamo in nessun altro luogo” (VIROLI 1995: 48). In certe circostanze la patria può assurgere a luogo sacro e richiedere un rispetto incondizionato, quasi religioso. “L’amore della patria è un amore esigente che non ammette né distinzioni né condizioni; comanda di amare la patria, non importa se gloriosa o oscura, prospera o povera” (VIROLI 1995: 23).
Il più delle volte però, l’attrazione nei confronti della terra natale non si avverte se quella terra non offre ciò che si desidera, se uno vi si sente oppresso e infelice. Non sono rari, infatti, coloro che abbandonano la terra dove sono nati alla ricerca di un luogo migliore. Alla fine, “la patria è dovunque si sta bene” (CICERONE, Tusculanae disputationes, V 37, 108), tanto bene da essere disposti a difenderla fino alla morte. Quando Cicerone dice che “conviene lottare per le leggi, per la libertà e per la patria” (ivi, IV 19, 43), lo dice perché «sta bene» nella Roma repubblicana. Per Machiavelli, Montesquieu, Voltaire e Rousseau il cittadino dovrebbe essere legato alla patria perché essa rappresenta la sua libertà, la sua sicurezza, i suoi beni e i suoi affetti. Insomma, “la patria non è né la repubblica né il luogo dove siamo nati, ma qualsiasi luogo in cui possiamo vivere sicuri con le nostre proprietà, trovare un campo, e una casa che ci ripari dalle intemperie” (VIROLI 1995: 108). Così intesa, la patria diventa uno strumento per la soddisfazione dei bisogni individuali, ovverosia un prodotto psicologico che, partendo da un bisogno di appartenenza dell’individuo, finisce col divenire un fenomeno universale. “Se sono ben governati, i cittadini capiscono che il loro bene coincide con il bene comune e amano la patria con tutto il loro cuore” (VIROLI 1995: 64).
Se la patria è il luogo dove si sta bene, il patriota è uno che è disposto a lottare per essa, per il suo bene, per il bene comune e il buon governo, e si sente affratellato con tutti quelli che, in altre parti del mondo, sono animati dai suoi stessi sentimenti. Il patriottismo, dunque, a differenza del nazionalismo, è orientato all’affermazione dei principi democratici e al rispetto di tutte le patrie, ed è per questo che esso alligna preferibilmente nei regimi repubblicani. Ma che ne sarebbe della patria se i cittadini non la considerassero come un proprio bene e la trascurassero? Senza difesa, la patria potrebbe essere conquistata dal nemico e tutti perderebbero la libertà e i beni. Ecco allora che il patriottismo viene visto come dovere e come virtù. Tuttavia, l’attaccamento alla patria altro non è, in definitiva, che amore interessato, amore per uno strumento atto a soddisfare i bisogni individuali di ogni singolo cittadino.

5.1.3. La Nazione ebraica
Col passare del tempo, l’idea di nazione si va rafforzando anche grazie ai racconti mitici che si vanno diffondendo sulle origini, sulle tradizioni, sulla storia e sul destino di una o più tribù. Questo quadro è ben rappresentato nella Bibbia, dove, com’è noto, si narra la storia di una nazione, Israele, a partire dalla sua nascita. Prima di diventare nazione, Israele ovviamente non esiste. Esistono soltanto alcune tribù indipendenti, note col nome di ebrei (habiru), che hanno in comune il territorio in cui vivono, l’area semidesertica del Sinai, lo stile di vita e la lingua. I fattori che compatteranno queste tribù di beduini e susciteranno in esse l’idea di nazione sono principalmente due: la fede in un dio comune, Jahve, e l’esigenza di doversi confrontare con nazioni più potenti allo scopo di insediarsi in un territorio migliore.
La Bibbia racconta le vicissitudini di questa nazione, di cui spiega il singolare modo in cui riporta e spiega i successi e gli insuccessi con l’intento di tenere vive le speranze degli ebrei sul proprio futuro, alla luce della fede in Jahve. Lo scopo che lo scrittore sacro si prefigge di raggiungere è quello di indurre gli ebrei a vedere in Jahve un porto sicuro e una garanzia di un loro domani radioso, quello stesso domani che gli altri popoli si aspettavano per i meriti dei propri capi. In realtà, anche gli ebrei si fanno guidare dai propri capi umani, solo che però pongono al di sopra di tutto Jahve, che è una sorta di supergaranzia. “Le rappresentazioni delle divinità contenute nell’Antico Testamento rispecchiano prevalentemente le immagini dell’autorità paterna, dei capi tribù, dei sovrani, ingrandite e magnificate fino a costituire la figura ideale di un Dio onnipotente che è in grado allo stesso tempo di proteggere e di incutere timore” (CRESPI 2008: 82). All’apparenza gli ebrei lottano per la propria egemonia, allo stesso modo che gli altri popoli, ma con la differenza che essi non fondano la propria aspirazione all’egemonia e i propri successi militari sui meriti propri, bensì sui meriti del proprio dio. Si spiega così perché “Israele non cerca, come farà in seguito il cristianesimo, di convertire le altre popolazioni, ma pretende unicamente da loro il riconoscimento della sua superiorità e la loro sottomissione” (CRESPI 2008: 83).
Quello che risalta maggiormente nel racconto biblico è la straordinaria resistenza degli ebrei di fronte alle sconfitte militari. Nonostante gli insuccessi, essi non si lasciano integrare dalle potenze dominante, ma conservano caparbiamente la propria coscienza di popolo eletto, che è destinato da Jahve a diventare una “grande nazione” (Gen 17, 20) e a dominare sulle altre nazioni, comprese quelle che al momento sono egemoni.
L’epilogo definitivo di questa storia ancora non lo conosciamo, dal momento che gli ebrei sono ancora esistenti, ma sappiamo come si sono svolti i fatti fino ad oggi. Sappiamo che il sogno della grande nazione dominatrice non si è avverato, mentre invece si è affermata una grande religione monoteista, i cui funzionari, intorno al V secolo a.C., hanno scritto, o reinterpretato, retrospettivamente la propria storia alla luce della propria fede in Jahve, e, per far ciò, non si sono preoccupati di espungere i racconti mitici, le genealogie immaginarie, i combattimenti epici contro nemici enfatizzati o gli elementi fantastici. Lo scopo dei redattori della Bibbia, infatti, non era quello di scrivere un libro di storia, ma piuttosto quello di confermare il lettore nella sua fede religiosa e nella sua volontà di appartenenza alla nazione di Israele. “L’epopea nazionale di cui si legge nella Bibbia è dunque, in larga parte, una «storia inventata», funzionale al disegno perseguito dall’élite politico-religiosa giudaica sopravvissuta alla diaspora e ai tentativi di assimilazione” (CAMPI 2004: 20).

5.1.4. La Nazione ellenica
Diversa è la nascita della nazione ellenica. La società omerica è formata da gruppi clanici e tribali, la cui coesione non è dovuta solo a legami parentali e di prossimità, ma anche alla fede sull’esistenza, reale o immaginaria, di un capostipite comune. Le singole famiglie vivono sparse in modo da potere sfruttare al meglio le risorse del territorio. Alcune famiglie spiccano sulle altre, sia perché sono più numerose e controllano un territorio più vasto, più fertile e meglio difendibile, sia perché sono anche meglio organizzate militarmente e perseguono oculate politiche matrimoniali. Spesso queste famiglie risiedono in villaggi fortificati e sono più adatte a prendere in mano il potere sull’intera tribù nel caso in cui questa dovesse essere colpita da una grave crisi interna o da una grave minaccia esterna.
A Corinto, racconta Erodoto, “c’era un’oligarchia i cui membri, chiamati Bacchiadi, governavano la città e si sposavano fra loro” (V, 92). Ma come si giunge a fondare una città come Corinto partendo da un pugno di famiglie e di clan sparsi in un ampio territorio? Non è difficile immaginarlo. Quando l’incremento demografico è tale da suscitare o accrescere la competizione fra i clan e fra i villaggi, avviene che una o poche famiglie assumano il pieno controllo di un villaggio e lo trasformino in una vera e propria città-stato (polis), mentre altre famiglie si vedono costrette ad allontanarsi (alcune di esse fonderanno colonie).
Pur condividendo in buona parte lingua, religione, usi e costumi, le poleis elleniche vollero rimanere indipendenti e furono spesso in reciproco conflitto, anche dopo le guerre persiane (490-479 a.C.), che pure avevano determinato lo sviluppo di una forte identità nazionale allargata a tutto il territorio ellenico. Insomma, in questo caso, non fu possibile costituire una nazione ellenica unitaria. Ci si potrebbe chiedere: perché i greci non formarono mai un popolo unitario allo stesso modo in cui invece avvenne per gli ebrei? In altri termini, perché non si può parlare di «Popolo greco» allo stesso modo in cui parliamo di popolo di Israele? Tra le possibili ragioni ricordo le seguenti:
• Il politeismo ellenico non favoriva l’unità di popolo.
• Il colonialismo contribuiva ad allentare le tensioni sociali interne e rendeva meno pressante per le poleis ricercare soluzioni radicali.
• Il mercenarismo, oltre ad essere una fonte di risorse, costituiva un’altra importante valvola di sfogo per le tensioni interne.

5.1.5. Roma
Ancora diverso è il caso di Roma, dove, come sappiamo, alla fine, si afferma l’impero. Ora, per fronteggiare il rischio di penetrazione di popolazioni barbariche e stabilizzare i confini, gli imperatori attuano politiche diverse a seconda del caso, ricorrendo di volta in volta al bastone o alla carota, alla spedizione punitiva o all’alleanza, all’appoggio di questo e quel capotribù o alla divisione di due etnie, ad una concessione di insediamento o ad un accordo fondato sul vantaggio reciproco.
Spinti dall’interesse di potersi confrontare con pochi e affidabili interlocutori, gli imperatori favoriscono la formazione di leghe tribali sotto un solo capo, che vengono insediate alla periferia dell’impero a mo’ di baluardo nei confronti delle ondate migratorie che arrivano da Est, alleggerendo così lo Stato di un compito assai gravoso. Il rovescio della medaglia è che, sotto la minaccia di questi nemici esterni, alcune leghe tribali si compattano saldamente intorno alla figura di un capo e sviluppano una vera e propria coscienza nazionale, che poi si tradurrà in una politica indipendente e orientata alla potenza e alla conquista, anche a danno degli stessi romani (AZZARA 1999: 41-2).
Nate da esigenze prevalentemente militari, le nazioni barbariche non avrebbero futuro se non trovassero il modo di realizzare un’unità nazionale anche sul piano culturale e organizzativo, ed è per questo che adottano l’apparato amministrativo e la religione dell’impero e si lasciano romanizzare. È così che si vanno formando qua e là le nazioni e i regni romano-barbarici, che poi saranno i principali eredi dell’ex impero romano.
Nell’uso romano il termine natio si riferisce prevalentemente a queste popolazioni non romane ed esprime il luogo di nascita o di provenienza o di discendenza comune, cui una persona si sente legata da vincoli affettivi o parentali. Raramente il termine natio è usato in riferimento a Roma, cui vengono invece riservati attributi quali civitas, patria, res pubblica, populus, Urbs, e ciò spiega perché natio abbia un “significato tendenzialmente negativo” (CAMPI 2004: 41). Per i romani, le nazioni sono generalmente popolazioni barbariche che lottano per la propria indipendenza e invano tentano di resistere alla potenza civilizzatrice di Roma (GASPARRI 1997).
La concezione romana di natio continuerà ad essere condivisa a lungo, tant’è vero che tanto Isidoro di Siviglia (VII sec.) che Bernardo di Chiaravalle (XII sec.) usano il termine in riferimento rispettivamente ai barbari e ai musulmani (TUCCARI 1996: 219).

5.2. I medievali
Caduta Roma, l’ideologia imperialista non muore, ma viene ereditata dall’universalismo teocratico dei papi, i quali però, non potendo contare sulla forza delle legioni, devono scendere a patti con le identità nazionali delle popolazioni barbariche vittoriose (almeno sul piano militare), alcune delle quali (Visigoti in Spagna, Longobardi in Italia, Franchi in Gallia) riescono a piantare delle solide radici culturali e lasceranno un’impronta che durerà nei secoli avvenire. Inizialmente, i capi barbari, che sono avvezzi alla vita tribale, riescono a fondare solo piccole comunità locali (villaggi, contadi, feudi), che sono rese coese “da vincoli di lealtà basati sulla dipendenza personale e sulla subordinazione gerarchica diretta”, ma che rimangono sovrastate dalla “concezione unitaria e universale del cristianesimo” (CAMPI 2004: 49).
Col tempo, i capi barbari si rendono conto che lo stile di vita tribale è inadeguato ad assicurare ordine e sicurezza in un grande regno e fanno l’unica cosa che possa rendere stabile il loro potere: prendere in prestito il diritto romano, che continua ad operare nelle diocesi cristiane. Più avanti, alcuni re barbari provano a elaborare un diritto personalizzato. Nascono così i codici del diritto tardomedievale, la lex salica, le Leges langobardorum, la Lex visigothorum, che sono “essenzialmente lunghi elenchi di infrazioni con le relative pene” (SCHULZE 1995: 17). La gerarchia sociale è legata alla nascita e alle proprietà immobiliari, soprattutto terriere. I signori, i principi, i re sono padroni assoluti del loro territorio e incarnano la legge.
Le due realtà, quella dell’universalismo cristiano e del particolarismo comunitario convivono lungo tutto il periodo alto-medievale e improntano anche il basso medioevo, che però registra anche l’affermazione di nuovi soggetti politici, come il Comuni, le Signorie e le Monarchie, che si oppongono all’universalismo cristiano e fanno da preludio all’inizio di una nuova era.
Lo Stato, inteso in senso moderno, nasce in Europa a partire dal XIII secolo e si tratta generalmente di una monarchia. Stato può essere considerato quello realizzato da Federico II (1194-1250) in Sicilia. È una società gerarchicamente ordinata, con al vertice il signore, ossia Federico II, il quale si avvale di un apparato burocratico capillare, i cui funzionari sono regolarmente pagati e si controllano l’un l’altro secondo precise regole gerarchiche. A loro è affidata l’amministrazione dello Stato e la regolamentazione dei mestieri, che sono sottoposti a norme ben precise. Lo Stato si finanzia non solo con i dazi e le imposte, ma anche partecipando attivamente alla vita economica attraverso la produzione di prodotti agricoli e l’esercizio del monopolio di materie prime e generi di lusso. Un’élite di giuristi amministra la giustizia, anche questa ordinata secondo una gerarchia rigorosa: dal Tribunale supremo dipendono i Tribunali periferici. È vietato farsi giustizia da sé. Ebbene, questo soggetto politico è ritenuto, per l’epoca, alquanto innovativo, se non rivoluzionario.
In realtà, l’idea di Stato è in larga misura estranea alla cultura medievale, che tende a concepire il mondo come una catena di rapporti gerarchici stabiliti da Dio (e dunque eterni e immutabili). Questa visione è più compatibile con una concezione patrimonialistico-feudale della società, che trova espressione nello Stato territoriale di proprietà di un feudatario e abitato dai suoi sudditi, che sono divisi per classi, a seconda del censo. Il feudatario distribuisce una parte delle sue terre a persone di sua fiducia in cambio della loro fedeltà e del loro sostegno. Fino al XIII sec., i modelli politici dominanti sono due: quello della città (o confederazione di città), ad imitazione delle poleis greche, e quello dell’impero universale, ad imitazione dell’impero romano. A parte le città-stato, che avevano delle istituzioni democratiche, i modelli statuali del medioevo si caratterizzano per il fatto che la sovranità appartiene al signore, il quale esercita un potere pressoché assoluto e la cui volontà è legge. Al di sopra del potere dei signori, molti riconoscono il potere spirituale della chiesa e del papa.
Qualcuno però non condivide questo primato della religione sulla politica e quando, nella prima metà del XIV secolo, il monaco francescano Gugliemo di Ockham e Marsilio da Padova affermano l’indipendenza del potere temporale dei signori da quello spirituale del papa, devono subire la scomunica. È comunque su queste basi che si svilupperà l’idea dello Stato moderno e nasceranno le monarchie assolute in Europa. In Inghilterra, invece, intorno alla metà del XIII secolo, si realizzano le condizioni favorevoli alla realizzazione di un Parlamento, costituito da un’assemblea dell’alta nobiltà, che limita i poteri del re, il che anticipa le moderne monarchie parlamentari.
Ancora nel medioevo «nazione» è un termine polisemico, che è stato usato in riferimento a realtà molto diverse, come un gruppo etnico, una corporazione studentesca, una rappresentanza mercantile, una minoranza rivoluzionaria, un corpo politico sovrano, una comunità politica o religiosa, e che, pertanto, è impossibile definire e racchiudere in una o poche definizioni (CAMPI 2004: 7-8).

5.3. I moderni
A partire dal Cinquecento, si assiste ad una serie di eventi che procedono in direzione di un ulteriore indebolimento dell’universalismo e di un rafforzamento del «nazionalismo». Uno degli eventi più importanti è la Riforma. Essa ha l’effetto di frantumare l’unità cristiana e avviare la creazione non solo di chiese nazionali, ma anche di culture nazionali, che trovano espressione nell’affinamento letterario delle lingue vernacolari e nel declino del latino. Nello stesso tempo le monarchie si consolidano e l’idea di impero viene quasi del tutto abbandonata. Adesso le carte vincenti sembrano essere quelle delle monarchie assolute e delle repubbliche aristocratiche, entrambe orientate a sviluppare una potente ideologia nazionale, che è funzionale al rafforzamento della coesione interna e all’attuazione di una politica nazionale di crescita economica e militare.
Nasce così lo Stato moderno, che è incentrato sulla figura del re, sovrano assoluto e simbolo dell’unità nazionale, intorno al quale si sviluppa “una vera e propria storiografia di corte ufficiale, il cui compito sarà quello di fissare le ambizioni delle case regnanti secondo un canone ideologico compiutamente nazionale” (CAMPI 2004: 90). Si afferma, nello stesso tempo, la figura del letterato prezzolato e adulante, che è disposto a scrivere storie più o meno fantasiose e a creare racconti mitici sulle origini di un casato dominante, al fine di legittimare agli occhi della gente il suo status. Sostenuto dalla propria potenza economica e militare, e confortato da una siffatta legittimazione ideologica, il sovrano ha tutte le carte in regola per condurre le sue politiche in ogni campo, compreso quello matrimoniale e dinastico, mentre lo Stato si riduce ad una sua proprietà privata, che può essere conquistata e difesa con la forza delle armi, ma anche con sagaci unioni matrimoniali.
Il primo Stato moderno destinato a durare è la Francia. Essa è retta da una monarchia coadiuvata da un apparato burocratico, il cui nerbo è costituito dalla Chiesa, che è adatta a questo tipo di compito sia per la sua presenza capillare nel territorio sia per la sua secolare organizzazione sociale. Il capo dello stato è il re, il quale può contare sulla temibile forza di un esercito permanente (ai tempi di Luigi XIV esso comprende 100.000 effettivi), che è considerato l’ultima ratio, il mezzo al quale il re deve fare ricorso quando le altre vie siano fallite. Nella gerarchia sociale, oltre alla nascita e al censo, conta anche il merito personale, e, in effetti, anche il re si serve di funzionari da lui stesso prescelti in base alle loro capacità e alla loro fedeltà, il che porta ad una graduale separazione dei poteri spirituale e temporale, oltre che alla secolarizzazione dello Stato e alla laicizzazione dell’apparato amministrativo. Fino al XVII secolo lo Stato è comunque scarsamente rappresentato nel mondo: nel 1648 gli Stati sovrani sono appena una dozzina.
La monarchia di tipo assoluto, o dispotismo, che si afferma in molti paesi d’Europa nel corso del XVII secolo non attecchisce in Inghilterra dove, con la Dichiarazione dei diritti (Bill of Rights) nel 1689, il re perde definitivamente le sue prerogative divine e deve accettare che la sua carica gli venga “conferita dal parlamento come una normale carica pubblica” (SCHULZE 1995: 94). Da questo momento, lo Stato non coincide più col sovrano, ma assume dignità propria. È così che i sudditi riescono ad ottenere “il primo governo parlamentare della storia sulla base dell’esplicito riconoscimento che l’esercizio del potere di coercizione dello Stato doveva essere regolato da leggi scritte, e che queste dovevano contemplare la tutela della vita, della persona e della proprietà dei governati. Tuttavia, si dovrà attendere la guerra di indipendenza delle colonie americane per avere la prima «Dichiarazione dei diritti del cittadino» che fu quella della Virginia (1776), nella quale era contemplato anche il rivoluzionario diritto di «riformare, mutare o abolire» il governo qualora questo, a insindacabile giudizio del popolo, fosse risultato oppressivo” (PELLICANI 1998: 790). Per la prima volta, anche il re è soggetto alla legge, mentre le leggi sono soggette alla costituzione.
In età moderna e fino alla rivoluzione francese, il termine «nazione» è usato solo in riferimento alle classi dominanti, ai nobili e ai ceti privilegiati. In Lutero, per esempio, l’espressione «nazione tedesca» definisce i principi tedeschi, in contrapposizione alle masse popolari.
Nel corso del XVIII secolo, il dispotismo dei sovrani è in molti casi temperato dal benefico effetto dei principi illuministi (libertà, tolleranza, ragione, istruzione, uguaglianza) che guidano alcuni sovrani (detti perciò «illuminati») nella realizzazione di riforme sociali. Nello stesso periodo, e sempre più, il termine «nazione» viene impiegato come sinonimo di «Stato», ossia per designare, senza aggiunta alcuna, l’intera comunità politica, che adesso è costituita solo da cittadini, che sono accomunati da lingua, storia, costumi e tradizioni, godono degli stessi diritti e sono dichiarati uguali davanti alla legge (BUSSI 2002: 25-9). Il significato del termine «nazione» cambia a partire dalle fasi iniziali della Rivoluzione, allorché l’abate Sieyés dichiara che il Terzo stato è l’unica parte attiva del paese e l’unico vero rappresentante della nazione.
La nazione rappresenta ora una realtà politica in grado di svolgere il ruolo di outsider fra i due contendenti più accreditati nel panorama politico dell’Occidente fino a quasi tutto il XVIII secolo: il sistema feudale e l’idea di Impero. Alla fine, la nazione riuscirà “vittoriosa in una battaglia combattuta su un duplice fronte: contro il particolarismo feudale e municipale e contro l’universalismo della Chiesa e dell’Impero” (BARBERA 1997: 23).

5.4. I contemporanei
Dopo le Rivoluzioni si vanno diffondendo i regimi costituzionali e parlamentari, la cui sostanziale funzione è quella di sottrarre potere al re a vantaggio della borghesia. Da qui in avanti lo Stato non si incarna più esclusivamente nella figura del re, ma si estende idealmente alla totalità dei cittadini, anche se in realtà questi vengono nettamente distinti in rapporto al censo. Ora lo Stato è sinonimo di patria e di nazione, anche se la coscienza nazionale riguarda in realtà solo una minoranza della popolazione, che generalmente è formata da membri della classe borghese e intellettuale del paese. “La vera nascita di una nazione – scrive Anne-Marie Thiesse – è il momento in cui un pugno di individui dichiara che essa esiste e cerca di dimostrarlo” (2001: 7). Ancora non si può parlare di «popolo» in senso proprio.
Nello stesso tempo, si va affermando l’idea di derivazione utilitaristica, secondo la quale, la funzione dello Stato è essenzialmente quella di rendere felici i cittadini e, su questa ci si avvia verso lo Stato sociale e assistenziale, che, dopo la caduta di Napoleone, è chiamato a sostituire il vecchio Stato assoluto. Al declino dell’assolutismo fa seguito non solo l’affermazione dell’idea di nazione, ma anche la richiesta di partecipazione politica da parte di strati sempre più ampi di popolazione, che, a sua volta, è favorita dall’affermarsi della scolarizzazione di massa. Si diffonde altresì il desiderio di libertà personale e si ritiene che lo Stato debba intervenire il meno possibile nella vita dei cittadini. Su questi princìpi nasce il liberalismo europeo, dalle cui correnti radicali prenderà origine il socialismo. Nel 1816 gli Stati sovrani nel mondo sono 23, ma stanno crescendo.
Lo Stato-nazione in senso moderno è tipicamente costituito da una popolazione insediata in un territorio ben delimitato, avente tratti culturali comuni (lingua, religione, ec.), sottoposta ad un potere centrale (dal quale dipendono le leggi, l’apparato amministrativo e burocratico, le forze di polizia e un esercito stabile nazionale) e riconosciuta a livello internazionale come soggetto di diritto. L’idea di nazione come Stato si è affermata in modo risoluto allorquando, in seguito alla riflessione di autori come Rousseau ed Herder e alle rivoluzioni americana e francese, il termine «nazione» ha cominciato ad essere usato in sostituzione del termine «re». “La nazione della rivoluzione francese era la comunità di tutti gli individui dotati di coscienza politica ed era basata sulle idee dell’uguaglianza di tutti e della sovranità del popolo” (SCHULZE 1995: 183). Declina l’idea medievale dello Stato patrimoniale. Le idee di Stato-nazione o di popolo-sovrano sono il risultato della coscienza nazionalistica di masse di cittadini e rappresentano il superamento della concezione medievale patrimoniale dello Stato (ma non dell’idea del potere monarchico: il principe non è più il proprietario dello Stato, ma conserva il diritto di governarlo).
Il popolo, inteso come la totalità dei cittadini, comincerà a svolgere un ruolo politico significativo quando dalle lotte socialiste e democratiche si affermeranno i partiti di massa e il suffragio universale. Ma, ancor prima, gli intellettuali di turno (Fichte, List, Treitschke, Mazzini, Renan e molti altri) danno fiato alle loro trombe e decantano popoli e nazioni che solo loro riescono a vedere. Essi pensano di dare una nazione sovrana e indipendente, in grado di soddisfare e garantire il diritto all’autodeterminazione dei popoli e di ciascuno dei loro membri: “solo un mondo composto da nazioni libere e sovrane poteva garantire giustizia e libertà per gli individui e i popoli” (CAMPI 2004: 171).
Ma è col Romanticismo che l’idea di nazione raggiunge l’apoteosi e viene applicata ad uno Stato territoriale ed esaltata come se fosse una persona dotata di anima, un soggetto politico inconfondibile e superiore, sia rispetto ad altre entità nazionali sia rispetto agli individui che lo compongono. Nell’individualismo illuminista e cosmopolita, che rapporta la singola persona col mondo, si contrappone il nazionalismo romantico, ossia dal primato della patria sulla persona. Per un romantico, come Friedrich Meinecke (1862-1954), la nazione è un tutto, un assoluto, un ente primigenio, che ha in sé la ragione del suo essere. Avendo una propria anima, la nazione non è qualcosa che dipende dall’uomo e che può essere imposta o rimossa con la forza, ma il frutto spontaneo dello spirito popolare nel suo continuo realizzarsi. Parole belle e capaci di sciogliere i cuori delle persone più sensibili, ma stucchevoli per la maggior parte della gente e prive di senso reale.
Nel 1843 John Stuart Mill dà la seguente definizione di «nazionalità»: “Intendiamo il sentimento di comunanza d’interessi tra coloro che vivono sotto il medesimo governo ed entro i medesimi confini naturali o storici. Intendiamo che una parte della comunità non si consideri estranea rispetto a un’altra sua parte; intendiamo che le varie parti della comunità facciano, della loro connessione, un valore; che sentano di essere un solo popolo; che sentano che il loro corpo è fuso insieme e che quello che è male per uno qualsiasi dei loro compatrioti è male anche per loro; che non desiderino egoisticamente liberarsi della loro parte d’inconvenienti comuni recidendo questa connessione” (1988: 122-3). Per Renan, la nazione non è sinonimo di razza, né di lingua, né di religione, né di confini territoriali. Essa si basa soprattutto sulla comune volontà di vivere insieme, volontà che dev’essere continuamente confermata in “un plebiscito di tutti i giorni” (1998: 16).
Alfredo Rocco ci dà questa definizione: “La Nazione è il complesso degli individui abitanti lo stesso territorio, che per comunanza delle origini, ma soprattutto della lingua, dei sentimenti, delle tradizioni, delle abitudini e degli interessi, formano un gruppo omogeneo avente caratteristiche morali, sociali ed anche fisiche sue proprie” (1969: 87). Secondo Antony D. Smith, “la nazione può essere definita come un gruppo sociale dotato di un nome specifico, legato a un determinato territorio e caratterizzato da miti e memorie storiche comuni, da una cultura pubblica di massa, dall’unità economica e dai diritti e doveri eguali per tutti i suoi membri” (1996: 207). Ma non è detto che tutti questi tratti debbano coesistere, né che debbano avere lo stesso peso. In ultima analisi, comunque lo si voglia definire, il significato di «nazione» è centrato sulla coscienza, da parte di una complessa e variegata comunità umana, di costituire un sol popolo sovrano; è innanzitutto un prodotto culturale, un’idea; l’idea che suddivide gli uomini in comunità coese sotto qualche riguardo (lingua, origini, costumi).
Le comunità etniche si costituiscono più sulla base di miti, memorie, valori e simboli, che sulla base di un certo territorio o di un certo potere politico. “Una etnia non ha bisogno di possedere fisicamente il «suo» territorio; quello che conta è che abbia un centro geografico simbolico, un habitat sacro, una «patria», a cui si può ritornare simbolicamente, anche quando i suoi membri sono sparpagliati sul pianeta e hanno perduto la loro patria da secoli” (SMITH 1992: 78). I miti di origine sono spesso contenuti in una dottrina religiosa e rafforzati dalla fede in un dio (SMITH 1992: 84). Come osserva Anthony D. Smith, “la religione organizzata fornisce la maggior parte delle persone e dei canali di comunicazione necessari al fine della diffusione dei miti e dei simboli etnici. I sacerdoti e gli scribi non solo comunicano, registrano e trasmettono queste leggende e credenze, ma sono anche i principali custodi e veicoli del simbolismo che può collegare le élite feudali o imperiali alle masse contadine o ai produttori di cibo e alle loro Piccole Tradizioni” (SMITH 1992: 93).
In realtà, dietro lo struggente quadro dipinto dai sognatori romantici, c’è un altro quadro ben più concreto: il quadro di un’altra rivoluzione, quella industriale, che dà impulso e vigore alla dottrina capitalistica. Ora le parole d’ordine sono «libera iniziativa» e «libero mercato» e sale alla ribalta la figura del «borghese», mentre diviene sempre più anacronistica la monarchia assoluta. L’idea di nazione può essere dunque letta come una risposta ai profondi cambiamenti soprattutto economici che agitano l’Occidente a partire dal XVIII secolo. Di fatto, essa sposta i riflettori della politica dalla figura del re, che fino a quel momento ha incarnato lo Stato, ai protagonisti del lavoro e del libero mercato, ossia al cosiddetto popolo borghese, e crea una nuova unità nazionale, che non è più determinata dalla figura del monarca, ma dalla totalità dei cittadini che lavorano e che ora si sentono più protagonisti.
Come abbiamo visto, nell’Ottocento l’idea di patria tende ad essere sostituita da quella di nazione e il nazionalismo soppianta il patriottismo. Mazzini, uno dei maggiori rappresentati del nuovo corso insieme a Herder, Fiche e Michelet, parte dall’uomo e dai suoi diritti fondamentali e inalienabili. Noi – dice – dobbiamo sentirci legati alla patria, almeno fintantoché in essa trionfano i principi democratici e il rispetto dei diritti umani. “Se la nostra patria agisce male, essa perde di valore, e né i luoghi, né i costumi, né il linguaggio possono compensare la perdita di valore morale. Non merita più il nostro affetto. Merita anzi di scomparire” (VIROLI 1995: 150). Mazzini sostiene che noi dovremmo sentirci affratellati con quanti lottano e soffrono per gli stessi principi democratici (primo fra tutti la libertà) dovunque essi si trovino e sogna una patria planetaria, anche se si rende conto che tale sogno non si potrà realizzare se non partendo dalla singola patria nazionale. “Prima d’associarsi con le nazioni che compongono l’umanità, bisogna esistere come nazione” (MAZZINI 1972: 882). Nazioni sì, ma senza barriere e aperte al mondo. “La nostra nazione merita il nostro amore fin quando rimane uno strumento per il bene e il progresso dell’umanità” (VIROLI 1995: 149).
Partendo da questi nobili ideali, ben presto il patriottismo è degenera in nazionalismo, per cui quello che conta, più d’ogni altra cosa, è l’appartenenza, l’essere italiano, francese, inglese o tedesco, senza altri distinguo e senza aperture. Ora, quando il nazionalismo degenera nel fanatismo ideologico, allora esso trasforma le nazioni in recinti chiusi e ostili l’uno all’altro, con conseguenze drammatiche. Secondo la logica del recinto, infatti, la nazione si divide in due: coloro che stanno dentro il recinto, che sono i migliori, e coloro che stanno fuori, che sono i diversi e gli infimi. Il cittadino deve ora amare il proprio paese non perché vi si trova bene, ma perché è il proprio paese. È un amore incondizionato, che si estende ai costumi, alle tradizioni, alla storia e alla religione. Tutto ciò che concerne la patria acquista valore sacro e va difeso ad ogni costo. Così, alla fine dell’Ottocento, l’ideale della patria, ormai confuso con la nazione, va perdendo “il contenuto di libertà che era stato per secoli il suo carattere distintivo” (VIROLI 1995: 158).
Secondo Antony D. Smith, “l’ideologia del nazionalismo si basa sui seguenti assunti: che il mondo si divide in diverse nazioni, ciascuna delle quali ha un proprio carattere e un proprio destino; che all’origine del potere politico vi è la nazione e che il primo obbligo di fedeltà del cittadino è nei confronti della nazione; che per essere liberi, gli individui devono appartenere a una nazione; che per essere effettivamente tali, le nazioni devono essere autonome; e infine, che solo una società di nazioni libere può assicurare la pace e la giustizia nel mondo” (SMITH 1996: 207). Questa definizione evoca la cultura dominante nelle poleis greche, con differenze, fra l’Attica e l’Italia, che sembrano solo quantitative, nonostante che la prima corrisponda all’incirca alla centesima parte della seconda, il che la rendeva meno inidonea a esprimere una politica di potenza, soprattutto in un tempo in cui esistevano entità statali più grandi, come i regni e gli imperi. Fino a che un popolo non sviluppa un sentimento di superiorità nazionale, difficilmente avverte l’impulso di ricercare in se stesso la fonte del potere politico e a non riconoscere un’autorità sovranazionale, com’è avvenuto per secoli ai tempi degli imperi. Il principio di sovranità è da intendere, dunque, come conseguenza dello spirito nazionalistico.
Ma perché si sviluppa il nazionalismo? “Il nazionalismo – osserva C. Quarta – si genera da una falsa coscienza e insorge quando un popolo non si limita ad affermare la propria identità, ma pretende d’imporre i propri valori, ritenuti superiori, alle altre nazioni” (1997: 287). Quando una popolazione parla la stessa lingua, pratica la stessa religione, condivide gli stessi costumi e si riconosce come unico soggetto storico, essa tende spontaneamente a legarsi al proprio modello culturale e a concepirlo come superiore a quello di tutti gli altri e comunque degno di essere difeso, anche a costo della vita, e possibilmente esportato con le buone o con le cattive. Non avrebbe senso il nazionalismo ideologico se non si accompagnasse a questo pregiudizio di «superiorità». Solo ciò che è superiore, infatti, merita di essere preservato e difeso, ma anche esportato e imposto con la forza. Ciò che va notato è che il giudizio di superiorità non si riferisce alle persone individuali, ma al popolo nel suo complesso, ossia alla nazione, e questo finisce per creare una contrapposizione tra la persona dello Stato e la persona del singolo individuo in carne ed ossa, e in questa contrapposizione è inevitabile che la superiore persona dello Stato ha sempre la meglio sull’individuo umano. Alla fine, la nazione diventa una sorta di superuomo avente vita propria e interessi propri, che nulla hanno a che fare con la vita e gli interessi dei cittadini. “Gli individui passano, e le nazioni durano secoli e millenni” (ROCCO 1969: 87). Si giunge così a dire che “è interesse della nazione che l’individuo si sviluppi per essere utile strumento dei suoi fini” (ROCCO 1969: 88).
Ebbene, quando un popolo si convince della propria superiorità, finisce per comportarsi in modo da confermare, a se stesso ed agli altri, questo suo convincimento. Il nazionalismo vuole l’affermazione della propria patria nel mondo, sotto tutti i punti di vista (culturale, commerciale, militare) e, di conseguenza, “non può diventare Imperialismo” (VALLI 1969: 57). Il superiore, infatti, ha il diritto di sottomettere e civilizzare l’inferiore. “Le nazioni forti e progressive non conquistano territori liberi, ma territori occupati da razze inferiori o da nazioni in decadenza” (ROCCO 1969: 91). In altri termini, possiamo immaginare il nazionalismo come un sentimento pernicioso che spinge un popolo a dominare il mondo, un mondo che è considerato inferiore.
Alla fine, la nazione è il popolo nella sua interezza, che diventa unico soggetto politico, ovvero «Stato» e, come tale, è chiamato a dimostrare di avere le carte in regola quanto meno per non essere inferiore a nessuno. Ma prima di tutto bisogna dimostrare che la nazione esiste davvero. Ora, quando si è di fronte ad aree geografiche estese come l’Italia o la Germania, dove vivono popolazioni diverse per lingua e storia, è difficile dimostrare l’esistenza di un’unità nazionale. Benché Herder abbia sostenuto che, senza unità linguistica, non possa esserci nazione, la lingua nazionale non si afferma negli Stati europei se non nel XX secolo. Si pensi all’Italia: nel 1861 quelli che conoscevano l’italiano erano solo il 2,5% della popolazione! Ed ecco allora che vengono in soccorso schiere di letterati pronti a costruire ciò che non c’è. Essi vedono la nazione “nel passato, nel patrimonio culturale comune dei suoi appartenenti, nelle sue istituzioni, nei suoi simboli, nel fatto che la storia unitaria ha preso il sopravvento sulla storia delle singole comunità che sono confluite nella nazione” (FACCHI 1997: 111).
Adesso che questi nobili spiriti hanno spiegato alla gente che la nazione c’è, c’è sempre stata ed ha origini illustri oltre che un avvenire fulgido, spetta alla gente di farsi carico non solo della conservazione e della difesa dello Stato, ma anche della sua politica di potenza. Non ci vuol molto però per capire che per attuare una politica di potenza ci vuole un grande esercito e, per avere un grande esercito, occorre avere molti uomini. Così, si fa largo l’idea che la potenza di uno Stato sia direttamente proporzionale al numero dei suoi abitanti: “più una società è numerosa, più è potente in tempo di pace, più è temibile in tempo di guerra. Un sovrano si occuperà dunque seriamente della moltiplicazione dei suoi sudditi. Più sudditi avrà, più saranno i suoi commercianti, i suoi operai, i suoi soldati” (DIDEROT 1967: 738).
In Europa, quest’idea di Stato-nazione si diffonde nel corso dell’Ottocento quando, sia per imitazione del modello francese, sia per reazione all’imperialismo napoleonico, qua e là si vanno costituendo focolai nazionalistici e dei cittadini chiedono (e ottengono) una costituzione scritta che, di fatto, viene a temperare il potere del re. “Negli ultimi decenni del XVIII secolo e nel corso del XIX nacquero così quelle nazioni che divennero poi un dato di fatto per gli europei del XX; entità spirituali curate e coltivate gelosamente da un numero limitato di eruditi, pubblicisti e poeti, nazioni popolari a livello ideale, ma non ancora nella realtà” (SCHULZE 1995: 205). Nel 1830 Luigi Filippo di Francia riceve la corona non più da Dio, bensì dal parlamento e giura non più sulla Bibbia, bensì sulla costituzione, ossia sulla nazione stessa, che ha preso il posto di Dio. “L’idea della nazione ha in sé qualcosa di religioso: non essendo una realtà immediatamente visibile, è necessario credere in essa; il nazionalismo è la fede laica dell’epoca industriale. Non era più Dio a legittimare il nuovo Stato, bensì la nazione” (SCHULZE 1995: 186).
Nel 1867 gli Stati sovrani nel mondo sono 40, e continuano a crescere, con conseguenze che sono valutate in modo diverso dai singoli pensatori, ma è innegabile che, come ha giustamente osservato Lucio Levi, “l’organizzazione prima dell’Europa, poi del mondo in Stati sovrani non solo ha dato vita alla più forte concentrazione del potere, ma ha anche determinato la più profonda divisione tra gruppi umani che la storia dell’umanità abbia conosciuto” (1998: 380).
Una volta costituitesi, le nazioni sviluppano una politica atta, da un lato a rinsaldare l’unità culturale delle rispettive popolazioni residenti (unità linguistica, monetaria e religiosa, scuola, partiti e sindacati di massa, servizio di leva, organi di stampa nazionali), dall’altro ad incrementare la potenza economica e militare della nazione, anche in aperta competizione con altre nazioni, che talvolta degenera in conflitto armato, il che non fa altro che accentuare le spinte nazionalistiche, fino a suscitare una fede profonda e morbosa nella superiorità della propria nazione o nel suo diritto di dominare sulle altre o di non farsi dominare. Da questo momento, “l’obiettivo perseguito dalla nazione non è più solo la conservazione, ma l’espansione” (CAMPI 2004: 172).
Questo momento di esaltazione ed ottimismo registra un effimero cambiamento all’indomani della prima guerra mondiale, che ha l’effetto di mettere in chiara evidenza i rischi del nazionalismo e che induce gli uomini a istituire la Società delle Nazioni, con l’evidente intento di unire le nazioni e scongiurare il rischio di nuove guerre, ma ciò non serve a frenare il nazionalismo, che anzi si rafforza.
Intanto, alla fine del XIX secolo, e in modo particolare dopo il secondo conflitto mondiale, si vanno diffondendo nel mondo i principi democratici e nascono le prime DR, che sono fondate sul principio che bisogna dare al popolo l’opportunità di scegliere dei rappresentanti cui affidare il compito di attuare la migliore politica possibile. Ma la grande crisi economica, che si registra nel terzo decennio del XX secolo, porta a credere che la democrazia sia un fallimento e su queste basi si affermano in tutta Europa governi autoritari: “Nel 1939 dei 28 Stati d’Europa solo 11 erano ancora amministrati secondo regole democratiche” (SCHULZE 1995: 333). I dittatori offrono al popolo ordine e sicurezza in cambio di una fedele sottomissione. Ciò che accomuna questi regimi totalitari è l’esaltazione della nazione fino al fanatismo e fino a mettere in ombra la singola persona. Così, secondo Alfredo Rocco, non si deve considerare “la nazione come mezzo per il benessere individuale, ma l’individuo come strumento o organo dei fini nazionali” (in CAMPI 2004: 174).
L’entusiasmo nazionalistico riprende quota. In Europa i XX secolo pullulano di pensatori che pretendono di dimostrare la superiorità di una nazione sulle altre o di una razza (bianca, ariana) sulle altre. Nazionalismo e fascismo si pongono in antitesi con lo spirito illuministico. Contestano che l’individuo sia capace di ragionare con la propria testa e ritengono che abbia bisogno di guide, autorità e gerarchie. Negano valore ai concetti astratti di uomo, libertà, eguaglianza individualismo, e li sostituiscono con le entità più concrete della propria patria, del proprio onore, della propria famiglia, della propria storia. La politica deve piegarsi agli interessi e al potenziamento della propria nazione (nazionalismo). La nazione è più della somma delle sue parti (i cittadini) e la ragion di Stato è prioritaria sulla ragione individuale.
Non tutti però vedono di buon occhio il nazionalismo imperante. Fra i più lucidi critici del nazionalismo vanno ricordati gli Autori del Manifesto di Ventotene (1941), Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni, i quali sostengono che la «nazione», da organismo per la libera convivenza degli uomini e dei popoli, è divenuta un organismo autoreferenziale e animato da una volontà di dominio, che “non potrebbe acquietarsi che nell’egemonia dello stato più forte su tutti gli altri asserviti” (in MARAZZITA 2006: 22). Al centro di tutto e di tutti c’è la nazione con il suo esclusivo ruolo e il suo destino di gloria nel mondo, e poco importa se alla causa di questi sommi obiettivi occorrerà sacrificare la vita di milioni di persone.
Gli anti-nazionalisti sanno che la libertà costa così tanto che molti vi rinunciano, preferendo rifugiarsi sotto l’ala rassicurante di una figura paterna. “In tutta la nostra civiltà vi sono persone le quali, come Dostoevskij sapeva, sentono un assoluto bisogno di «rinunziare quanto prima è possibile al dono della libertà... con cui esse, creature sfortunate, furono create». A queste persone la rinuncia alla libertà procura un senso di sicurezza, ed esse pensano di essere libere perché hanno rinunciato all’obbligo sociale di acquistare un’individualità. Questa è la gente il cui senso di impotenza, di solitudine, di depressione (alla cui base vi è la paura) fa sì che si reggano in piedi governi autoritari come furono quelli di Hitler e Mussolini” (LASKI 1976: 248). L’ignoranza e la paura generano i totalitarismi.
Ci sono voluti gli orrori della seconda guerra mondiale e soprattutto la consapevolezza di disporre dell’arma nucleare, che è potenzialmente distruttiva di tutta la vita sulla terra, per convincere gli uomini a cambiare idea sul nazionalismo. Ciò finalmente fa comprendere agli uomini che hanno raggiunto un limite invalicabile e che devono porre fine alla loro follia e rinsavire. Nasce così l’Organizzazione delle Nazioni Unite (1945). È degno di nota il fatto che si continui a parlare di «nazioni», e non di Stati, segno evidente che la nazione continua a rimanere l’“unico fondamento legittimo dello stato” (THIESSE 2001: 225). Un po’ alla volta, il termine «nazionalismo» finisce per diventare “la più grande vergogna politica del diciannovesimo secolo, la macchia più profonda, più indelebile e senza precedenti nella storia politica del mondo dopo il 1900” (DUNN 1993: 94). Ma ciò non arresta la moltiplicazione degli Stati sovrani nel mondo. Il loro numero, infatti, è in costante ascesa: passa da 66 nel 1945 a 122 nel 1964 e a 185 nel 2000.
Chiudo con una breve considerazione. La nazione non è un fatto naturale o spontaneo, come lo erano stati la famiglia e il clan. Infatti, già la tribù era un prodotto della volontà umana; figuriamoci la nazione, che è l’equivalente di centinaia o migliaia di popolazioni tribali. La nazione dunque è una tipica costruzione umana, la cui caratteristica è quella di non essere più fondata sulla figura del sovrano, almeno non in forma esclusiva, ma sul popolo, e nella quale assume un’importanza speciale l’unità linguistico-culturale, che è simboleggiata dalla scuola di massa, ma anche la cosiddetta volontà popolare, che è veicolata dai partiti di massa e trova espressione nella Carta costituzionale e nel suffragio universale.

5.5. L’Unione Europea
Intanto, anche in Europa (1948) diciotto Stati stringono fra loro un rapporto di cooperazione economica (OECE) “allo scopo di collaborare con il governo degli Stati Uniti nella distribuzione degli aiuti del Piano Marshall” (MARAZZITA 2006: 27), dando così il via ad un lento processo che porterà all’istituzione di un nuovo soggetto politico, l’Unione Europea, alla quale si arriva attraverso le istituzioni intermedie della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (1951) e della Comunità economica europea (1957). Nata dal Trattato di Maastricht (1992), poi ripreso e modificato nei successivi Trattati di Amsterdam (1997) e Nizza (2001), l’Unione Europea prende atto nella sua costituzione che “solo in pace e attraverso la concertazione” sarà possibile realizzare il disegni di un’Europa unita nella diversità (MARAZZITA 2006: 43). Tutto ciò denota la volontà di porre fine al clima di competizione esasperata e di ostilità generato dal nazionalismo estremo e scongiurare così il pericolo di nuove guerre, soprattutto ora che gli uomini sono andati dotandosi di arsenali nucleari sempre più distruttivi.
È vero, dopo la seconda guerra mondiale non se n’è registrata una terza, ma ciò non vuol dire che si è generato un clima di pace e di solidarietà fraterna. Più semplicemente, la guerra aperta, che è divenuta improponibile per la paura delle armi atomiche, ha lasciato il posto alla guerra fredda, ossia ad un clima di tensione subdola e strisciante, segnata da conflitti diplomatici, dalla competizione economica e tecnologica, da sfere d’influenza, da scontri ideologici.
Ma intanto, grazie allo sviluppo dell’aviazione civile, che rende più facili e veloci gli spostamenti di uomini e merci da una parte all’altra del pianeta, e grazie alla diffusione del telefono e della televisione prima e di internet poi, che consentono lo scambio di informazioni e notizie in tempo reale a livello planetario, inizia l’era della globalizzazione, che si rivela in grado di imprimere dei profondi cambiamenti sociale nell’arco di pochi decenni. Adesso l’identità, la sovranità, la cultura, la cittadinanza, l’economia e le unità nazionali (di lingua, di religione, di storia) diventano valori sempre più relativi e anacronistici, tanto da indurre taluno a preconizzare la fine dello Stato-nazione, il quale tuttavia continua a mostrare una straordinaria capacità di resistenza “a dispetto di tutti coloro che con eccessiva fretta ne hanno annunciato la scomparsa dall’orizzonte della storia” (CAMPI 2004: 208). Insomma, con la globalizzazione “lo Stato nazionale è diventato obsoleto”, ma il nazionalismo non è finito, anzi rivive nei tanti movimenti etnici che popolano il pianeta (SMITH 1996: 212).
Volendo ricapitolare, possiamo dire che, a differenza del termine «nazione», che risale all’epoca romana, il termine «nazionalismo» è stato introdotto nel corso dell’Ottocento e, dunque, rappresenta “un fenomeno tipicamente ed esclusivamente moderno” (TUCCARI 1996a: 180). Usato in un primo tempo con valenza prevalentemente negativa, il termine è stato rivalutato in modo consistente a cavallo fra XIX e XX secolo, per caricarsi nuovamente di pesanti connotazioni negative dopo la seconda guerra mondiale.

5.5. Oggi: crisi dello Stato?
Negli ultimi decenni, molti hanno cominciato a parlare di declino dello Stato e non è detto che non abbiano ragione. Effettivamente, oggi, con l’affermazione dei mass-media, della rete telematica, di internet, del villaggio globale, dell’e-commerce, sembrerebbe che la nazione abbia imboccato il viale del tramonto. Del resto, lo aveva previsto lo stesso Renan, insieme alla nascita dell’Europa Unita, più di un secolo fa, quando scriveva: “Le nazioni non sono qualcosa di eterno. Esse hanno avuto un inizio, avranno una fine. La confederazione europea, probabilmente, prenderà il loro posto” (RENAN 1998: 16). Ma perché lo Stato è in crisi?
Una possibile spiegazione consiste nella presa di coscienza da parte di molti che il genere umano è uno e che, fatta salva la propria comunità locale, non è bene che esso venga suddiviso in Stati. “Rispetto ai bisogni di unità internazionale e di autonomia locale, il modello dello Stato nazionale, che organizza la divisione invece dell’unità del genere umano e sviluppa il monismo invece del pluralismo sociale, è diventato anacronistico” (LEVI 1997: 99). Peraltro, lo Stato-nazione è “inconciliabile con l’idea del diritto internazionale” (PORTINARO 1999: 131), di cui si avverte sempre più la necessità. Oggi si avverte il “bisogno della patria, non della nazione” (VIROLI 1995: 172).
Insomma, lo Stato è messo in crisi dall’aumentata domanda di globalizzazione e di particolarismo locale. “Da un lato strutture politiche, norme e istituzioni giuridiche, poteri economici hanno sempre più dimensioni sovranazionali, mentre i caratteri tipici dei popoli nazionali tendono a sfumare sotto la spinta del processo di globalizzazione che porta a un’omogeneità di beni e di modelli culturali. Dall’altro emergono vecchie e nuove forme di identità collettiva costruite su basi etniche, religiose, economiche, che non si identificano con i confini e gli ordinamenti nazionali e rivendicano, a vari livelli, garanzie di tutela e indipendenza” (FACCHI 1997: 115).

5.6. Nazione, nazionalismo, globalizzazione
Verosimilmente oggi l’uomo non è ancora pronto ad assumere una dimensione cosmopolita, condizionato com’è da un retaggio millenario orientato al localismo, che esprime l’esigenza naturale dell’uomo del calore di una famiglia e dei vantaggi che può offrire una piccola patria. Ora, se il localismo è radicato nella mente degli uomini e risponde ad un loro bisogno biologico, il globalismo rappresenta un fatto nuovo, in precedenza inimmaginabile e al quale ci si potrà abituare solo col trascorrere del tempo. Ciò che appare decisamente fuori posto è lo Stato-nazione, che pure è stato così faticosamente e dolorosamente costruito e conservato nel corso degli ultimi due secoli, con il ricorso sia alla forza sia all’indottrinamento culturale.
Oggi dobbiamo avere il coraggio di smantellare questo palco, dimenticare le nostre lingue nazionali, ridimensionare i miti d’origine delle nostre nazioni e ammettere che non ci sono prove a sostegno della reale esistenza delle nazioni. Quello che invece è certo è che esistono le persone. Dobbiamo ammettere che è improprio parlare di superiorità di una nazione rispetto ad un’altra, le uniche vere differenze essendo quelle che intercorrono tra un individuo e l’altro, le quali sono legate in parte al corredo genetico, in parte all’educazione ricevuta, ma indipendenti dalla nazionalità e comunque non tali da giustificare il dominio di una nazione sull’altra. Siamo chiamati a disintossicarci dal nazionalismo che ha impestato l’aria negli ultimi due secoli e puntare, ovunque nel mondo, al potenziamento del capitale umano, che è la risorsa più importante per noi, quella a cui non dobbiamo rinunciare. Per fare ciò occorre innanzitutto migliorare le realtà municipali, facendone luoghi d’incontro, di discussione, di studio e di svago, e rendendole funzionali alla partecipazione politica dei cittadini, ma bisogna anche ricordare che solo una lingua e una moneta mondiale possono veramente creare un clima favorevole ad un cosmopolitismo, che però non dovrebbe penalizzare il nostro bisogno biologico del localismo. Forse è il momento di entrare nell’era del glocalismo.