giovedì 20 agosto 2009

5. La storia dello Stato e l’idea di Nazione

L’uomo è naturalmente portato a vivere in piccoli gruppi legati da vincoli parentali e di prossimità, come famiglie e clan, e tutte le società più vaste e complesse del clan sono costruzioni culturali dell’uomo a partenza da situazioni contingenti. I più semplici raggruppamenti umani di tipo culturale sono la tribù, l’etnia e la nazione (qui userò questi termini come sinonimi), i più complessi lo Stato, il regno, l’impero. In essi “vi è poco di naturale o di predeterminato” (POHL 2000: 2) e la loro attuazione pratica è dovuta alla ferma volontà di una ristretta élite dominante. Nelle pagine che seguono vedremo come le idee di Stato e di Nazione hanno preso forma e si sono evoluta nel corso del tempo.

5.1. Gli antichi
Gli antichi conoscono l’idea di famiglia, clan, tribù, stirpe, etnia, razza, casato, città, regno e impero, ma non conoscono l’idea di Stato: “l’Egitto, la Cina, l’antica Caldea, non furono mai nazioni. Erano greggi guidate da un figlio del Sole, o da un figlio del Cielo” (RENAN 1998: 4). Nella Bibbia si parla di «nazioni» in riferimento ai pagani, che, in tal modo, vengono ben distinti dal popolo eletto. Col termine nazione (dal latino nasci = nascere) gli antichi romani intendono, in un primo tempo, un gruppo di persone legate da un ascendente comune, una sorta di clan, e, successivamente, un gruppo unito da legami di tipo culturale. In ogni caso, “il fine della nazione non è quello di diventare stato, ma di affermarsi e di essere riconosciuta come tale; cioè come portatrice di una particolare cultura, di particolari valori” (QUARTA 1997: 284).

5.1.1. Nazione e nazionalismo nell’età antica
“Nel momento in cui inizia la storia scritta, cioè alla metà del terzo millennio a.C., le etnie appaiono già in evidenza” (SMITH 1992: 102) e tendono a rafforzarsi soprattutto quando si trovano a competere con altre etnie. “L’etnicismo è essenzialmente difensivo. È una risposta a minacce esterne e a divisioni interne” (SMITH 1992: 127). In ogni caso, le guerre “hanno avuto il massimo impatto sulla formazione e sulla persistenza di etnie” (SMITH 1992: 95). Col diffondersi della guerra, l’idea di nazione si trasforma in ideologia di «superiorità» e assume i contorni del «nazionalismo», anche se questo termine entrerà in uso molto più tardi. Difficilmente il nazionalismo si sarebbe sviluppato nel mondo se non ci fosse stato il confronto ostile fra due o più popolazioni, e ciò è facilmente comprensibile. Infatti, quando due comunità si trovano, per esempio, a contendersi il controllo di una regione, ciascuna di esse avrà interesse a compattarsi in modo da procedere unita e coesa contro il nemico.
Anche l’incontro con civiltà molto più avanzate, nota Anthony D. Smith, non impedisce ad una etnia di sviluppare “l’intima convinzione della superiorità morale indigena” (SMITH 1992: 114). Ora è facile comprendere che un paese tecnologicamente o economicamente o militarmente più progredito sviluppi un sentimento di superiorità nei confronti di altri paesi. Meno facile è comprendere il sentimento di superiorità che si sviluppa in comunità relativamente deboli. Al primo gruppo appartengono gli egizi, i babilonesi, gli assiri, i greci, i cinesi, gli arabi; al secondo gruppo, gli ebrei.
Di norma il collante di una comunità è un’ideologia, che, almeno inizialmente, tende ad essere di natura religiosa e si esprime nella figura di un uomo divinizzato, com’è il caso del faraone egizio, o di un dio sommo, com’è il caso di Jahve ebraico, o di una figura intermedia, com’è il caso del re mesopotamico. L’elemento religioso è tale da unire molteplici tribù indipendenti in un sol popolo e crea la coscienza di nazione, specie quando si è in stato di guerra con altri popoli. Va da sé che, nel momento in cui un clan matura la consapevolezza di appartenere ad una comunità più ampia, esso avverte anche la necessità di giustificare questa appartenenza, di spiegare cioè le ragioni per cui bisogna essere fieri di appartenere a quella comunità e non ad un’altra, soprattutto quando fra più comunità c’è un clima di ostilità o di guerra. È qui che entra in scena l’ideologia «nazionalista», la quale chiama in causa la figura di tale dio o di tale re, che è dipinto come superiore ad altre divinità o ad altri monarchi e quindi viene visto come una garanzia di successo, a patto di rimanere uniti e fedeli ai comandi di quel dio o di quel re.
Se l’idea di nazione è centrata più sulla figura di un popolo sovrano che su basi territoriali, l’idea di Stato è centrata su un territorio ben delimitato, che può essere abitato anche da più nazioni, il quale è difeso da un adeguato apparato militare e controllato da parte di un apparato governativo e amministrativo. Così concepito, lo Stato può essere definito come un complesso sistema sociale, territoriale, economico, burocratico e militare, il cui fine ultimo è, di norma, quello di tutelare i ricchi tenendo a bada i poveri, oppure di creare le migliori condizioni possibili per conquistare la massima fiducia degli ottimati, e altro ancora.

5.1.2. Patria, nazione e nazionalismo
Abbiamo già illustrato il significato di nazione. Diverso è il concetto di «patria», che è usato con diversi significati a seconda dei tempi e dei luoghi. Gli antichi chiamano «patria» la Terra dei Padri, ossia quel suolo “dove ancora vive lo spirito degli antenati e riposano i loro resti mortali” (VIROLI 1995: 23). Generalmente, la patria è intesa come il luogo dove ciascuno è nato e al quale si sente legato da un invincibile sentimento affettivo. “Nessun altro luogo può avere lo stesso significato del luogo natio. Possiamo proclamare di essere cittadini del mondo, ma un particolare angolo del mondo produce in noi sentimenti che non proviamo in nessun altro luogo” (VIROLI 1995: 48). In certe circostanze la patria può assurgere a luogo sacro e richiedere un rispetto incondizionato, quasi religioso. “L’amore della patria è un amore esigente che non ammette né distinzioni né condizioni; comanda di amare la patria, non importa se gloriosa o oscura, prospera o povera” (VIROLI 1995: 23).
Il più delle volte però, l’attrazione nei confronti della terra natale non si avverte se quella terra non offre ciò che si desidera, se uno vi si sente oppresso e infelice. Non sono rari, infatti, coloro che abbandonano la terra dove sono nati alla ricerca di un luogo migliore. Alla fine, “la patria è dovunque si sta bene” (CICERONE, Tusculanae disputationes, V 37, 108), tanto bene da essere disposti a difenderla fino alla morte. Quando Cicerone dice che “conviene lottare per le leggi, per la libertà e per la patria” (ivi, IV 19, 43), lo dice perché «sta bene» nella Roma repubblicana. Per Machiavelli, Montesquieu, Voltaire e Rousseau il cittadino dovrebbe essere legato alla patria perché essa rappresenta la sua libertà, la sua sicurezza, i suoi beni e i suoi affetti. Insomma, “la patria non è né la repubblica né il luogo dove siamo nati, ma qualsiasi luogo in cui possiamo vivere sicuri con le nostre proprietà, trovare un campo, e una casa che ci ripari dalle intemperie” (VIROLI 1995: 108). Così intesa, la patria diventa uno strumento per la soddisfazione dei bisogni individuali, ovverosia un prodotto psicologico che, partendo da un bisogno di appartenenza dell’individuo, finisce col divenire un fenomeno universale. “Se sono ben governati, i cittadini capiscono che il loro bene coincide con il bene comune e amano la patria con tutto il loro cuore” (VIROLI 1995: 64).
Se la patria è il luogo dove si sta bene, il patriota è uno che è disposto a lottare per essa, per il suo bene, per il bene comune e il buon governo, e si sente affratellato con tutti quelli che, in altre parti del mondo, sono animati dai suoi stessi sentimenti. Il patriottismo, dunque, a differenza del nazionalismo, è orientato all’affermazione dei principi democratici e al rispetto di tutte le patrie, ed è per questo che esso alligna preferibilmente nei regimi repubblicani. Ma che ne sarebbe della patria se i cittadini non la considerassero come un proprio bene e la trascurassero? Senza difesa, la patria potrebbe essere conquistata dal nemico e tutti perderebbero la libertà e i beni. Ecco allora che il patriottismo viene visto come dovere e come virtù. Tuttavia, l’attaccamento alla patria altro non è, in definitiva, che amore interessato, amore per uno strumento atto a soddisfare i bisogni individuali di ogni singolo cittadino.

5.1.3. La Nazione ebraica
Col passare del tempo, l’idea di nazione si va rafforzando anche grazie ai racconti mitici che si vanno diffondendo sulle origini, sulle tradizioni, sulla storia e sul destino di una o più tribù. Questo quadro è ben rappresentato nella Bibbia, dove, com’è noto, si narra la storia di una nazione, Israele, a partire dalla sua nascita. Prima di diventare nazione, Israele ovviamente non esiste. Esistono soltanto alcune tribù indipendenti, note col nome di ebrei (habiru), che hanno in comune il territorio in cui vivono, l’area semidesertica del Sinai, lo stile di vita e la lingua. I fattori che compatteranno queste tribù di beduini e susciteranno in esse l’idea di nazione sono principalmente due: la fede in un dio comune, Jahve, e l’esigenza di doversi confrontare con nazioni più potenti allo scopo di insediarsi in un territorio migliore.
La Bibbia racconta le vicissitudini di questa nazione, di cui spiega il singolare modo in cui riporta e spiega i successi e gli insuccessi con l’intento di tenere vive le speranze degli ebrei sul proprio futuro, alla luce della fede in Jahve. Lo scopo che lo scrittore sacro si prefigge di raggiungere è quello di indurre gli ebrei a vedere in Jahve un porto sicuro e una garanzia di un loro domani radioso, quello stesso domani che gli altri popoli si aspettavano per i meriti dei propri capi. In realtà, anche gli ebrei si fanno guidare dai propri capi umani, solo che però pongono al di sopra di tutto Jahve, che è una sorta di supergaranzia. “Le rappresentazioni delle divinità contenute nell’Antico Testamento rispecchiano prevalentemente le immagini dell’autorità paterna, dei capi tribù, dei sovrani, ingrandite e magnificate fino a costituire la figura ideale di un Dio onnipotente che è in grado allo stesso tempo di proteggere e di incutere timore” (CRESPI 2008: 82). All’apparenza gli ebrei lottano per la propria egemonia, allo stesso modo che gli altri popoli, ma con la differenza che essi non fondano la propria aspirazione all’egemonia e i propri successi militari sui meriti propri, bensì sui meriti del proprio dio. Si spiega così perché “Israele non cerca, come farà in seguito il cristianesimo, di convertire le altre popolazioni, ma pretende unicamente da loro il riconoscimento della sua superiorità e la loro sottomissione” (CRESPI 2008: 83).
Quello che risalta maggiormente nel racconto biblico è la straordinaria resistenza degli ebrei di fronte alle sconfitte militari. Nonostante gli insuccessi, essi non si lasciano integrare dalle potenze dominante, ma conservano caparbiamente la propria coscienza di popolo eletto, che è destinato da Jahve a diventare una “grande nazione” (Gen 17, 20) e a dominare sulle altre nazioni, comprese quelle che al momento sono egemoni.
L’epilogo definitivo di questa storia ancora non lo conosciamo, dal momento che gli ebrei sono ancora esistenti, ma sappiamo come si sono svolti i fatti fino ad oggi. Sappiamo che il sogno della grande nazione dominatrice non si è avverato, mentre invece si è affermata una grande religione monoteista, i cui funzionari, intorno al V secolo a.C., hanno scritto, o reinterpretato, retrospettivamente la propria storia alla luce della propria fede in Jahve, e, per far ciò, non si sono preoccupati di espungere i racconti mitici, le genealogie immaginarie, i combattimenti epici contro nemici enfatizzati o gli elementi fantastici. Lo scopo dei redattori della Bibbia, infatti, non era quello di scrivere un libro di storia, ma piuttosto quello di confermare il lettore nella sua fede religiosa e nella sua volontà di appartenenza alla nazione di Israele. “L’epopea nazionale di cui si legge nella Bibbia è dunque, in larga parte, una «storia inventata», funzionale al disegno perseguito dall’élite politico-religiosa giudaica sopravvissuta alla diaspora e ai tentativi di assimilazione” (CAMPI 2004: 20).

5.1.4. La Nazione ellenica
Diversa è la nascita della nazione ellenica. La società omerica è formata da gruppi clanici e tribali, la cui coesione non è dovuta solo a legami parentali e di prossimità, ma anche alla fede sull’esistenza, reale o immaginaria, di un capostipite comune. Le singole famiglie vivono sparse in modo da potere sfruttare al meglio le risorse del territorio. Alcune famiglie spiccano sulle altre, sia perché sono più numerose e controllano un territorio più vasto, più fertile e meglio difendibile, sia perché sono anche meglio organizzate militarmente e perseguono oculate politiche matrimoniali. Spesso queste famiglie risiedono in villaggi fortificati e sono più adatte a prendere in mano il potere sull’intera tribù nel caso in cui questa dovesse essere colpita da una grave crisi interna o da una grave minaccia esterna.
A Corinto, racconta Erodoto, “c’era un’oligarchia i cui membri, chiamati Bacchiadi, governavano la città e si sposavano fra loro” (V, 92). Ma come si giunge a fondare una città come Corinto partendo da un pugno di famiglie e di clan sparsi in un ampio territorio? Non è difficile immaginarlo. Quando l’incremento demografico è tale da suscitare o accrescere la competizione fra i clan e fra i villaggi, avviene che una o poche famiglie assumano il pieno controllo di un villaggio e lo trasformino in una vera e propria città-stato (polis), mentre altre famiglie si vedono costrette ad allontanarsi (alcune di esse fonderanno colonie).
Pur condividendo in buona parte lingua, religione, usi e costumi, le poleis elleniche vollero rimanere indipendenti e furono spesso in reciproco conflitto, anche dopo le guerre persiane (490-479 a.C.), che pure avevano determinato lo sviluppo di una forte identità nazionale allargata a tutto il territorio ellenico. Insomma, in questo caso, non fu possibile costituire una nazione ellenica unitaria. Ci si potrebbe chiedere: perché i greci non formarono mai un popolo unitario allo stesso modo in cui invece avvenne per gli ebrei? In altri termini, perché non si può parlare di «Popolo greco» allo stesso modo in cui parliamo di popolo di Israele? Tra le possibili ragioni ricordo le seguenti:
• Il politeismo ellenico non favoriva l’unità di popolo.
• Il colonialismo contribuiva ad allentare le tensioni sociali interne e rendeva meno pressante per le poleis ricercare soluzioni radicali.
• Il mercenarismo, oltre ad essere una fonte di risorse, costituiva un’altra importante valvola di sfogo per le tensioni interne.

5.1.5. Roma
Ancora diverso è il caso di Roma, dove, come sappiamo, alla fine, si afferma l’impero. Ora, per fronteggiare il rischio di penetrazione di popolazioni barbariche e stabilizzare i confini, gli imperatori attuano politiche diverse a seconda del caso, ricorrendo di volta in volta al bastone o alla carota, alla spedizione punitiva o all’alleanza, all’appoggio di questo e quel capotribù o alla divisione di due etnie, ad una concessione di insediamento o ad un accordo fondato sul vantaggio reciproco.
Spinti dall’interesse di potersi confrontare con pochi e affidabili interlocutori, gli imperatori favoriscono la formazione di leghe tribali sotto un solo capo, che vengono insediate alla periferia dell’impero a mo’ di baluardo nei confronti delle ondate migratorie che arrivano da Est, alleggerendo così lo Stato di un compito assai gravoso. Il rovescio della medaglia è che, sotto la minaccia di questi nemici esterni, alcune leghe tribali si compattano saldamente intorno alla figura di un capo e sviluppano una vera e propria coscienza nazionale, che poi si tradurrà in una politica indipendente e orientata alla potenza e alla conquista, anche a danno degli stessi romani (AZZARA 1999: 41-2).
Nate da esigenze prevalentemente militari, le nazioni barbariche non avrebbero futuro se non trovassero il modo di realizzare un’unità nazionale anche sul piano culturale e organizzativo, ed è per questo che adottano l’apparato amministrativo e la religione dell’impero e si lasciano romanizzare. È così che si vanno formando qua e là le nazioni e i regni romano-barbarici, che poi saranno i principali eredi dell’ex impero romano.
Nell’uso romano il termine natio si riferisce prevalentemente a queste popolazioni non romane ed esprime il luogo di nascita o di provenienza o di discendenza comune, cui una persona si sente legata da vincoli affettivi o parentali. Raramente il termine natio è usato in riferimento a Roma, cui vengono invece riservati attributi quali civitas, patria, res pubblica, populus, Urbs, e ciò spiega perché natio abbia un “significato tendenzialmente negativo” (CAMPI 2004: 41). Per i romani, le nazioni sono generalmente popolazioni barbariche che lottano per la propria indipendenza e invano tentano di resistere alla potenza civilizzatrice di Roma (GASPARRI 1997).
La concezione romana di natio continuerà ad essere condivisa a lungo, tant’è vero che tanto Isidoro di Siviglia (VII sec.) che Bernardo di Chiaravalle (XII sec.) usano il termine in riferimento rispettivamente ai barbari e ai musulmani (TUCCARI 1996: 219).

5.2. I medievali
Caduta Roma, l’ideologia imperialista non muore, ma viene ereditata dall’universalismo teocratico dei papi, i quali però, non potendo contare sulla forza delle legioni, devono scendere a patti con le identità nazionali delle popolazioni barbariche vittoriose (almeno sul piano militare), alcune delle quali (Visigoti in Spagna, Longobardi in Italia, Franchi in Gallia) riescono a piantare delle solide radici culturali e lasceranno un’impronta che durerà nei secoli avvenire. Inizialmente, i capi barbari, che sono avvezzi alla vita tribale, riescono a fondare solo piccole comunità locali (villaggi, contadi, feudi), che sono rese coese “da vincoli di lealtà basati sulla dipendenza personale e sulla subordinazione gerarchica diretta”, ma che rimangono sovrastate dalla “concezione unitaria e universale del cristianesimo” (CAMPI 2004: 49).
Col tempo, i capi barbari si rendono conto che lo stile di vita tribale è inadeguato ad assicurare ordine e sicurezza in un grande regno e fanno l’unica cosa che possa rendere stabile il loro potere: prendere in prestito il diritto romano, che continua ad operare nelle diocesi cristiane. Più avanti, alcuni re barbari provano a elaborare un diritto personalizzato. Nascono così i codici del diritto tardomedievale, la lex salica, le Leges langobardorum, la Lex visigothorum, che sono “essenzialmente lunghi elenchi di infrazioni con le relative pene” (SCHULZE 1995: 17). La gerarchia sociale è legata alla nascita e alle proprietà immobiliari, soprattutto terriere. I signori, i principi, i re sono padroni assoluti del loro territorio e incarnano la legge.
Le due realtà, quella dell’universalismo cristiano e del particolarismo comunitario convivono lungo tutto il periodo alto-medievale e improntano anche il basso medioevo, che però registra anche l’affermazione di nuovi soggetti politici, come il Comuni, le Signorie e le Monarchie, che si oppongono all’universalismo cristiano e fanno da preludio all’inizio di una nuova era.
Lo Stato, inteso in senso moderno, nasce in Europa a partire dal XIII secolo e si tratta generalmente di una monarchia. Stato può essere considerato quello realizzato da Federico II (1194-1250) in Sicilia. È una società gerarchicamente ordinata, con al vertice il signore, ossia Federico II, il quale si avvale di un apparato burocratico capillare, i cui funzionari sono regolarmente pagati e si controllano l’un l’altro secondo precise regole gerarchiche. A loro è affidata l’amministrazione dello Stato e la regolamentazione dei mestieri, che sono sottoposti a norme ben precise. Lo Stato si finanzia non solo con i dazi e le imposte, ma anche partecipando attivamente alla vita economica attraverso la produzione di prodotti agricoli e l’esercizio del monopolio di materie prime e generi di lusso. Un’élite di giuristi amministra la giustizia, anche questa ordinata secondo una gerarchia rigorosa: dal Tribunale supremo dipendono i Tribunali periferici. È vietato farsi giustizia da sé. Ebbene, questo soggetto politico è ritenuto, per l’epoca, alquanto innovativo, se non rivoluzionario.
In realtà, l’idea di Stato è in larga misura estranea alla cultura medievale, che tende a concepire il mondo come una catena di rapporti gerarchici stabiliti da Dio (e dunque eterni e immutabili). Questa visione è più compatibile con una concezione patrimonialistico-feudale della società, che trova espressione nello Stato territoriale di proprietà di un feudatario e abitato dai suoi sudditi, che sono divisi per classi, a seconda del censo. Il feudatario distribuisce una parte delle sue terre a persone di sua fiducia in cambio della loro fedeltà e del loro sostegno. Fino al XIII sec., i modelli politici dominanti sono due: quello della città (o confederazione di città), ad imitazione delle poleis greche, e quello dell’impero universale, ad imitazione dell’impero romano. A parte le città-stato, che avevano delle istituzioni democratiche, i modelli statuali del medioevo si caratterizzano per il fatto che la sovranità appartiene al signore, il quale esercita un potere pressoché assoluto e la cui volontà è legge. Al di sopra del potere dei signori, molti riconoscono il potere spirituale della chiesa e del papa.
Qualcuno però non condivide questo primato della religione sulla politica e quando, nella prima metà del XIV secolo, il monaco francescano Gugliemo di Ockham e Marsilio da Padova affermano l’indipendenza del potere temporale dei signori da quello spirituale del papa, devono subire la scomunica. È comunque su queste basi che si svilupperà l’idea dello Stato moderno e nasceranno le monarchie assolute in Europa. In Inghilterra, invece, intorno alla metà del XIII secolo, si realizzano le condizioni favorevoli alla realizzazione di un Parlamento, costituito da un’assemblea dell’alta nobiltà, che limita i poteri del re, il che anticipa le moderne monarchie parlamentari.
Ancora nel medioevo «nazione» è un termine polisemico, che è stato usato in riferimento a realtà molto diverse, come un gruppo etnico, una corporazione studentesca, una rappresentanza mercantile, una minoranza rivoluzionaria, un corpo politico sovrano, una comunità politica o religiosa, e che, pertanto, è impossibile definire e racchiudere in una o poche definizioni (CAMPI 2004: 7-8).

5.3. I moderni
A partire dal Cinquecento, si assiste ad una serie di eventi che procedono in direzione di un ulteriore indebolimento dell’universalismo e di un rafforzamento del «nazionalismo». Uno degli eventi più importanti è la Riforma. Essa ha l’effetto di frantumare l’unità cristiana e avviare la creazione non solo di chiese nazionali, ma anche di culture nazionali, che trovano espressione nell’affinamento letterario delle lingue vernacolari e nel declino del latino. Nello stesso tempo le monarchie si consolidano e l’idea di impero viene quasi del tutto abbandonata. Adesso le carte vincenti sembrano essere quelle delle monarchie assolute e delle repubbliche aristocratiche, entrambe orientate a sviluppare una potente ideologia nazionale, che è funzionale al rafforzamento della coesione interna e all’attuazione di una politica nazionale di crescita economica e militare.
Nasce così lo Stato moderno, che è incentrato sulla figura del re, sovrano assoluto e simbolo dell’unità nazionale, intorno al quale si sviluppa “una vera e propria storiografia di corte ufficiale, il cui compito sarà quello di fissare le ambizioni delle case regnanti secondo un canone ideologico compiutamente nazionale” (CAMPI 2004: 90). Si afferma, nello stesso tempo, la figura del letterato prezzolato e adulante, che è disposto a scrivere storie più o meno fantasiose e a creare racconti mitici sulle origini di un casato dominante, al fine di legittimare agli occhi della gente il suo status. Sostenuto dalla propria potenza economica e militare, e confortato da una siffatta legittimazione ideologica, il sovrano ha tutte le carte in regola per condurre le sue politiche in ogni campo, compreso quello matrimoniale e dinastico, mentre lo Stato si riduce ad una sua proprietà privata, che può essere conquistata e difesa con la forza delle armi, ma anche con sagaci unioni matrimoniali.
Il primo Stato moderno destinato a durare è la Francia. Essa è retta da una monarchia coadiuvata da un apparato burocratico, il cui nerbo è costituito dalla Chiesa, che è adatta a questo tipo di compito sia per la sua presenza capillare nel territorio sia per la sua secolare organizzazione sociale. Il capo dello stato è il re, il quale può contare sulla temibile forza di un esercito permanente (ai tempi di Luigi XIV esso comprende 100.000 effettivi), che è considerato l’ultima ratio, il mezzo al quale il re deve fare ricorso quando le altre vie siano fallite. Nella gerarchia sociale, oltre alla nascita e al censo, conta anche il merito personale, e, in effetti, anche il re si serve di funzionari da lui stesso prescelti in base alle loro capacità e alla loro fedeltà, il che porta ad una graduale separazione dei poteri spirituale e temporale, oltre che alla secolarizzazione dello Stato e alla laicizzazione dell’apparato amministrativo. Fino al XVII secolo lo Stato è comunque scarsamente rappresentato nel mondo: nel 1648 gli Stati sovrani sono appena una dozzina.
La monarchia di tipo assoluto, o dispotismo, che si afferma in molti paesi d’Europa nel corso del XVII secolo non attecchisce in Inghilterra dove, con la Dichiarazione dei diritti (Bill of Rights) nel 1689, il re perde definitivamente le sue prerogative divine e deve accettare che la sua carica gli venga “conferita dal parlamento come una normale carica pubblica” (SCHULZE 1995: 94). Da questo momento, lo Stato non coincide più col sovrano, ma assume dignità propria. È così che i sudditi riescono ad ottenere “il primo governo parlamentare della storia sulla base dell’esplicito riconoscimento che l’esercizio del potere di coercizione dello Stato doveva essere regolato da leggi scritte, e che queste dovevano contemplare la tutela della vita, della persona e della proprietà dei governati. Tuttavia, si dovrà attendere la guerra di indipendenza delle colonie americane per avere la prima «Dichiarazione dei diritti del cittadino» che fu quella della Virginia (1776), nella quale era contemplato anche il rivoluzionario diritto di «riformare, mutare o abolire» il governo qualora questo, a insindacabile giudizio del popolo, fosse risultato oppressivo” (PELLICANI 1998: 790). Per la prima volta, anche il re è soggetto alla legge, mentre le leggi sono soggette alla costituzione.
In età moderna e fino alla rivoluzione francese, il termine «nazione» è usato solo in riferimento alle classi dominanti, ai nobili e ai ceti privilegiati. In Lutero, per esempio, l’espressione «nazione tedesca» definisce i principi tedeschi, in contrapposizione alle masse popolari.
Nel corso del XVIII secolo, il dispotismo dei sovrani è in molti casi temperato dal benefico effetto dei principi illuministi (libertà, tolleranza, ragione, istruzione, uguaglianza) che guidano alcuni sovrani (detti perciò «illuminati») nella realizzazione di riforme sociali. Nello stesso periodo, e sempre più, il termine «nazione» viene impiegato come sinonimo di «Stato», ossia per designare, senza aggiunta alcuna, l’intera comunità politica, che adesso è costituita solo da cittadini, che sono accomunati da lingua, storia, costumi e tradizioni, godono degli stessi diritti e sono dichiarati uguali davanti alla legge (BUSSI 2002: 25-9). Il significato del termine «nazione» cambia a partire dalle fasi iniziali della Rivoluzione, allorché l’abate Sieyés dichiara che il Terzo stato è l’unica parte attiva del paese e l’unico vero rappresentante della nazione.
La nazione rappresenta ora una realtà politica in grado di svolgere il ruolo di outsider fra i due contendenti più accreditati nel panorama politico dell’Occidente fino a quasi tutto il XVIII secolo: il sistema feudale e l’idea di Impero. Alla fine, la nazione riuscirà “vittoriosa in una battaglia combattuta su un duplice fronte: contro il particolarismo feudale e municipale e contro l’universalismo della Chiesa e dell’Impero” (BARBERA 1997: 23).

5.4. I contemporanei
Dopo le Rivoluzioni si vanno diffondendo i regimi costituzionali e parlamentari, la cui sostanziale funzione è quella di sottrarre potere al re a vantaggio della borghesia. Da qui in avanti lo Stato non si incarna più esclusivamente nella figura del re, ma si estende idealmente alla totalità dei cittadini, anche se in realtà questi vengono nettamente distinti in rapporto al censo. Ora lo Stato è sinonimo di patria e di nazione, anche se la coscienza nazionale riguarda in realtà solo una minoranza della popolazione, che generalmente è formata da membri della classe borghese e intellettuale del paese. “La vera nascita di una nazione – scrive Anne-Marie Thiesse – è il momento in cui un pugno di individui dichiara che essa esiste e cerca di dimostrarlo” (2001: 7). Ancora non si può parlare di «popolo» in senso proprio.
Nello stesso tempo, si va affermando l’idea di derivazione utilitaristica, secondo la quale, la funzione dello Stato è essenzialmente quella di rendere felici i cittadini e, su questa ci si avvia verso lo Stato sociale e assistenziale, che, dopo la caduta di Napoleone, è chiamato a sostituire il vecchio Stato assoluto. Al declino dell’assolutismo fa seguito non solo l’affermazione dell’idea di nazione, ma anche la richiesta di partecipazione politica da parte di strati sempre più ampi di popolazione, che, a sua volta, è favorita dall’affermarsi della scolarizzazione di massa. Si diffonde altresì il desiderio di libertà personale e si ritiene che lo Stato debba intervenire il meno possibile nella vita dei cittadini. Su questi princìpi nasce il liberalismo europeo, dalle cui correnti radicali prenderà origine il socialismo. Nel 1816 gli Stati sovrani nel mondo sono 23, ma stanno crescendo.
Lo Stato-nazione in senso moderno è tipicamente costituito da una popolazione insediata in un territorio ben delimitato, avente tratti culturali comuni (lingua, religione, ec.), sottoposta ad un potere centrale (dal quale dipendono le leggi, l’apparato amministrativo e burocratico, le forze di polizia e un esercito stabile nazionale) e riconosciuta a livello internazionale come soggetto di diritto. L’idea di nazione come Stato si è affermata in modo risoluto allorquando, in seguito alla riflessione di autori come Rousseau ed Herder e alle rivoluzioni americana e francese, il termine «nazione» ha cominciato ad essere usato in sostituzione del termine «re». “La nazione della rivoluzione francese era la comunità di tutti gli individui dotati di coscienza politica ed era basata sulle idee dell’uguaglianza di tutti e della sovranità del popolo” (SCHULZE 1995: 183). Declina l’idea medievale dello Stato patrimoniale. Le idee di Stato-nazione o di popolo-sovrano sono il risultato della coscienza nazionalistica di masse di cittadini e rappresentano il superamento della concezione medievale patrimoniale dello Stato (ma non dell’idea del potere monarchico: il principe non è più il proprietario dello Stato, ma conserva il diritto di governarlo).
Il popolo, inteso come la totalità dei cittadini, comincerà a svolgere un ruolo politico significativo quando dalle lotte socialiste e democratiche si affermeranno i partiti di massa e il suffragio universale. Ma, ancor prima, gli intellettuali di turno (Fichte, List, Treitschke, Mazzini, Renan e molti altri) danno fiato alle loro trombe e decantano popoli e nazioni che solo loro riescono a vedere. Essi pensano di dare una nazione sovrana e indipendente, in grado di soddisfare e garantire il diritto all’autodeterminazione dei popoli e di ciascuno dei loro membri: “solo un mondo composto da nazioni libere e sovrane poteva garantire giustizia e libertà per gli individui e i popoli” (CAMPI 2004: 171).
Ma è col Romanticismo che l’idea di nazione raggiunge l’apoteosi e viene applicata ad uno Stato territoriale ed esaltata come se fosse una persona dotata di anima, un soggetto politico inconfondibile e superiore, sia rispetto ad altre entità nazionali sia rispetto agli individui che lo compongono. Nell’individualismo illuminista e cosmopolita, che rapporta la singola persona col mondo, si contrappone il nazionalismo romantico, ossia dal primato della patria sulla persona. Per un romantico, come Friedrich Meinecke (1862-1954), la nazione è un tutto, un assoluto, un ente primigenio, che ha in sé la ragione del suo essere. Avendo una propria anima, la nazione non è qualcosa che dipende dall’uomo e che può essere imposta o rimossa con la forza, ma il frutto spontaneo dello spirito popolare nel suo continuo realizzarsi. Parole belle e capaci di sciogliere i cuori delle persone più sensibili, ma stucchevoli per la maggior parte della gente e prive di senso reale.
Nel 1843 John Stuart Mill dà la seguente definizione di «nazionalità»: “Intendiamo il sentimento di comunanza d’interessi tra coloro che vivono sotto il medesimo governo ed entro i medesimi confini naturali o storici. Intendiamo che una parte della comunità non si consideri estranea rispetto a un’altra sua parte; intendiamo che le varie parti della comunità facciano, della loro connessione, un valore; che sentano di essere un solo popolo; che sentano che il loro corpo è fuso insieme e che quello che è male per uno qualsiasi dei loro compatrioti è male anche per loro; che non desiderino egoisticamente liberarsi della loro parte d’inconvenienti comuni recidendo questa connessione” (1988: 122-3). Per Renan, la nazione non è sinonimo di razza, né di lingua, né di religione, né di confini territoriali. Essa si basa soprattutto sulla comune volontà di vivere insieme, volontà che dev’essere continuamente confermata in “un plebiscito di tutti i giorni” (1998: 16).
Alfredo Rocco ci dà questa definizione: “La Nazione è il complesso degli individui abitanti lo stesso territorio, che per comunanza delle origini, ma soprattutto della lingua, dei sentimenti, delle tradizioni, delle abitudini e degli interessi, formano un gruppo omogeneo avente caratteristiche morali, sociali ed anche fisiche sue proprie” (1969: 87). Secondo Antony D. Smith, “la nazione può essere definita come un gruppo sociale dotato di un nome specifico, legato a un determinato territorio e caratterizzato da miti e memorie storiche comuni, da una cultura pubblica di massa, dall’unità economica e dai diritti e doveri eguali per tutti i suoi membri” (1996: 207). Ma non è detto che tutti questi tratti debbano coesistere, né che debbano avere lo stesso peso. In ultima analisi, comunque lo si voglia definire, il significato di «nazione» è centrato sulla coscienza, da parte di una complessa e variegata comunità umana, di costituire un sol popolo sovrano; è innanzitutto un prodotto culturale, un’idea; l’idea che suddivide gli uomini in comunità coese sotto qualche riguardo (lingua, origini, costumi).
Le comunità etniche si costituiscono più sulla base di miti, memorie, valori e simboli, che sulla base di un certo territorio o di un certo potere politico. “Una etnia non ha bisogno di possedere fisicamente il «suo» territorio; quello che conta è che abbia un centro geografico simbolico, un habitat sacro, una «patria», a cui si può ritornare simbolicamente, anche quando i suoi membri sono sparpagliati sul pianeta e hanno perduto la loro patria da secoli” (SMITH 1992: 78). I miti di origine sono spesso contenuti in una dottrina religiosa e rafforzati dalla fede in un dio (SMITH 1992: 84). Come osserva Anthony D. Smith, “la religione organizzata fornisce la maggior parte delle persone e dei canali di comunicazione necessari al fine della diffusione dei miti e dei simboli etnici. I sacerdoti e gli scribi non solo comunicano, registrano e trasmettono queste leggende e credenze, ma sono anche i principali custodi e veicoli del simbolismo che può collegare le élite feudali o imperiali alle masse contadine o ai produttori di cibo e alle loro Piccole Tradizioni” (SMITH 1992: 93).
In realtà, dietro lo struggente quadro dipinto dai sognatori romantici, c’è un altro quadro ben più concreto: il quadro di un’altra rivoluzione, quella industriale, che dà impulso e vigore alla dottrina capitalistica. Ora le parole d’ordine sono «libera iniziativa» e «libero mercato» e sale alla ribalta la figura del «borghese», mentre diviene sempre più anacronistica la monarchia assoluta. L’idea di nazione può essere dunque letta come una risposta ai profondi cambiamenti soprattutto economici che agitano l’Occidente a partire dal XVIII secolo. Di fatto, essa sposta i riflettori della politica dalla figura del re, che fino a quel momento ha incarnato lo Stato, ai protagonisti del lavoro e del libero mercato, ossia al cosiddetto popolo borghese, e crea una nuova unità nazionale, che non è più determinata dalla figura del monarca, ma dalla totalità dei cittadini che lavorano e che ora si sentono più protagonisti.
Come abbiamo visto, nell’Ottocento l’idea di patria tende ad essere sostituita da quella di nazione e il nazionalismo soppianta il patriottismo. Mazzini, uno dei maggiori rappresentati del nuovo corso insieme a Herder, Fiche e Michelet, parte dall’uomo e dai suoi diritti fondamentali e inalienabili. Noi – dice – dobbiamo sentirci legati alla patria, almeno fintantoché in essa trionfano i principi democratici e il rispetto dei diritti umani. “Se la nostra patria agisce male, essa perde di valore, e né i luoghi, né i costumi, né il linguaggio possono compensare la perdita di valore morale. Non merita più il nostro affetto. Merita anzi di scomparire” (VIROLI 1995: 150). Mazzini sostiene che noi dovremmo sentirci affratellati con quanti lottano e soffrono per gli stessi principi democratici (primo fra tutti la libertà) dovunque essi si trovino e sogna una patria planetaria, anche se si rende conto che tale sogno non si potrà realizzare se non partendo dalla singola patria nazionale. “Prima d’associarsi con le nazioni che compongono l’umanità, bisogna esistere come nazione” (MAZZINI 1972: 882). Nazioni sì, ma senza barriere e aperte al mondo. “La nostra nazione merita il nostro amore fin quando rimane uno strumento per il bene e il progresso dell’umanità” (VIROLI 1995: 149).
Partendo da questi nobili ideali, ben presto il patriottismo è degenera in nazionalismo, per cui quello che conta, più d’ogni altra cosa, è l’appartenenza, l’essere italiano, francese, inglese o tedesco, senza altri distinguo e senza aperture. Ora, quando il nazionalismo degenera nel fanatismo ideologico, allora esso trasforma le nazioni in recinti chiusi e ostili l’uno all’altro, con conseguenze drammatiche. Secondo la logica del recinto, infatti, la nazione si divide in due: coloro che stanno dentro il recinto, che sono i migliori, e coloro che stanno fuori, che sono i diversi e gli infimi. Il cittadino deve ora amare il proprio paese non perché vi si trova bene, ma perché è il proprio paese. È un amore incondizionato, che si estende ai costumi, alle tradizioni, alla storia e alla religione. Tutto ciò che concerne la patria acquista valore sacro e va difeso ad ogni costo. Così, alla fine dell’Ottocento, l’ideale della patria, ormai confuso con la nazione, va perdendo “il contenuto di libertà che era stato per secoli il suo carattere distintivo” (VIROLI 1995: 158).
Secondo Antony D. Smith, “l’ideologia del nazionalismo si basa sui seguenti assunti: che il mondo si divide in diverse nazioni, ciascuna delle quali ha un proprio carattere e un proprio destino; che all’origine del potere politico vi è la nazione e che il primo obbligo di fedeltà del cittadino è nei confronti della nazione; che per essere liberi, gli individui devono appartenere a una nazione; che per essere effettivamente tali, le nazioni devono essere autonome; e infine, che solo una società di nazioni libere può assicurare la pace e la giustizia nel mondo” (SMITH 1996: 207). Questa definizione evoca la cultura dominante nelle poleis greche, con differenze, fra l’Attica e l’Italia, che sembrano solo quantitative, nonostante che la prima corrisponda all’incirca alla centesima parte della seconda, il che la rendeva meno inidonea a esprimere una politica di potenza, soprattutto in un tempo in cui esistevano entità statali più grandi, come i regni e gli imperi. Fino a che un popolo non sviluppa un sentimento di superiorità nazionale, difficilmente avverte l’impulso di ricercare in se stesso la fonte del potere politico e a non riconoscere un’autorità sovranazionale, com’è avvenuto per secoli ai tempi degli imperi. Il principio di sovranità è da intendere, dunque, come conseguenza dello spirito nazionalistico.
Ma perché si sviluppa il nazionalismo? “Il nazionalismo – osserva C. Quarta – si genera da una falsa coscienza e insorge quando un popolo non si limita ad affermare la propria identità, ma pretende d’imporre i propri valori, ritenuti superiori, alle altre nazioni” (1997: 287). Quando una popolazione parla la stessa lingua, pratica la stessa religione, condivide gli stessi costumi e si riconosce come unico soggetto storico, essa tende spontaneamente a legarsi al proprio modello culturale e a concepirlo come superiore a quello di tutti gli altri e comunque degno di essere difeso, anche a costo della vita, e possibilmente esportato con le buone o con le cattive. Non avrebbe senso il nazionalismo ideologico se non si accompagnasse a questo pregiudizio di «superiorità». Solo ciò che è superiore, infatti, merita di essere preservato e difeso, ma anche esportato e imposto con la forza. Ciò che va notato è che il giudizio di superiorità non si riferisce alle persone individuali, ma al popolo nel suo complesso, ossia alla nazione, e questo finisce per creare una contrapposizione tra la persona dello Stato e la persona del singolo individuo in carne ed ossa, e in questa contrapposizione è inevitabile che la superiore persona dello Stato ha sempre la meglio sull’individuo umano. Alla fine, la nazione diventa una sorta di superuomo avente vita propria e interessi propri, che nulla hanno a che fare con la vita e gli interessi dei cittadini. “Gli individui passano, e le nazioni durano secoli e millenni” (ROCCO 1969: 87). Si giunge così a dire che “è interesse della nazione che l’individuo si sviluppi per essere utile strumento dei suoi fini” (ROCCO 1969: 88).
Ebbene, quando un popolo si convince della propria superiorità, finisce per comportarsi in modo da confermare, a se stesso ed agli altri, questo suo convincimento. Il nazionalismo vuole l’affermazione della propria patria nel mondo, sotto tutti i punti di vista (culturale, commerciale, militare) e, di conseguenza, “non può diventare Imperialismo” (VALLI 1969: 57). Il superiore, infatti, ha il diritto di sottomettere e civilizzare l’inferiore. “Le nazioni forti e progressive non conquistano territori liberi, ma territori occupati da razze inferiori o da nazioni in decadenza” (ROCCO 1969: 91). In altri termini, possiamo immaginare il nazionalismo come un sentimento pernicioso che spinge un popolo a dominare il mondo, un mondo che è considerato inferiore.
Alla fine, la nazione è il popolo nella sua interezza, che diventa unico soggetto politico, ovvero «Stato» e, come tale, è chiamato a dimostrare di avere le carte in regola quanto meno per non essere inferiore a nessuno. Ma prima di tutto bisogna dimostrare che la nazione esiste davvero. Ora, quando si è di fronte ad aree geografiche estese come l’Italia o la Germania, dove vivono popolazioni diverse per lingua e storia, è difficile dimostrare l’esistenza di un’unità nazionale. Benché Herder abbia sostenuto che, senza unità linguistica, non possa esserci nazione, la lingua nazionale non si afferma negli Stati europei se non nel XX secolo. Si pensi all’Italia: nel 1861 quelli che conoscevano l’italiano erano solo il 2,5% della popolazione! Ed ecco allora che vengono in soccorso schiere di letterati pronti a costruire ciò che non c’è. Essi vedono la nazione “nel passato, nel patrimonio culturale comune dei suoi appartenenti, nelle sue istituzioni, nei suoi simboli, nel fatto che la storia unitaria ha preso il sopravvento sulla storia delle singole comunità che sono confluite nella nazione” (FACCHI 1997: 111).
Adesso che questi nobili spiriti hanno spiegato alla gente che la nazione c’è, c’è sempre stata ed ha origini illustri oltre che un avvenire fulgido, spetta alla gente di farsi carico non solo della conservazione e della difesa dello Stato, ma anche della sua politica di potenza. Non ci vuol molto però per capire che per attuare una politica di potenza ci vuole un grande esercito e, per avere un grande esercito, occorre avere molti uomini. Così, si fa largo l’idea che la potenza di uno Stato sia direttamente proporzionale al numero dei suoi abitanti: “più una società è numerosa, più è potente in tempo di pace, più è temibile in tempo di guerra. Un sovrano si occuperà dunque seriamente della moltiplicazione dei suoi sudditi. Più sudditi avrà, più saranno i suoi commercianti, i suoi operai, i suoi soldati” (DIDEROT 1967: 738).
In Europa, quest’idea di Stato-nazione si diffonde nel corso dell’Ottocento quando, sia per imitazione del modello francese, sia per reazione all’imperialismo napoleonico, qua e là si vanno costituendo focolai nazionalistici e dei cittadini chiedono (e ottengono) una costituzione scritta che, di fatto, viene a temperare il potere del re. “Negli ultimi decenni del XVIII secolo e nel corso del XIX nacquero così quelle nazioni che divennero poi un dato di fatto per gli europei del XX; entità spirituali curate e coltivate gelosamente da un numero limitato di eruditi, pubblicisti e poeti, nazioni popolari a livello ideale, ma non ancora nella realtà” (SCHULZE 1995: 205). Nel 1830 Luigi Filippo di Francia riceve la corona non più da Dio, bensì dal parlamento e giura non più sulla Bibbia, bensì sulla costituzione, ossia sulla nazione stessa, che ha preso il posto di Dio. “L’idea della nazione ha in sé qualcosa di religioso: non essendo una realtà immediatamente visibile, è necessario credere in essa; il nazionalismo è la fede laica dell’epoca industriale. Non era più Dio a legittimare il nuovo Stato, bensì la nazione” (SCHULZE 1995: 186).
Nel 1867 gli Stati sovrani nel mondo sono 40, e continuano a crescere, con conseguenze che sono valutate in modo diverso dai singoli pensatori, ma è innegabile che, come ha giustamente osservato Lucio Levi, “l’organizzazione prima dell’Europa, poi del mondo in Stati sovrani non solo ha dato vita alla più forte concentrazione del potere, ma ha anche determinato la più profonda divisione tra gruppi umani che la storia dell’umanità abbia conosciuto” (1998: 380).
Una volta costituitesi, le nazioni sviluppano una politica atta, da un lato a rinsaldare l’unità culturale delle rispettive popolazioni residenti (unità linguistica, monetaria e religiosa, scuola, partiti e sindacati di massa, servizio di leva, organi di stampa nazionali), dall’altro ad incrementare la potenza economica e militare della nazione, anche in aperta competizione con altre nazioni, che talvolta degenera in conflitto armato, il che non fa altro che accentuare le spinte nazionalistiche, fino a suscitare una fede profonda e morbosa nella superiorità della propria nazione o nel suo diritto di dominare sulle altre o di non farsi dominare. Da questo momento, “l’obiettivo perseguito dalla nazione non è più solo la conservazione, ma l’espansione” (CAMPI 2004: 172).
Questo momento di esaltazione ed ottimismo registra un effimero cambiamento all’indomani della prima guerra mondiale, che ha l’effetto di mettere in chiara evidenza i rischi del nazionalismo e che induce gli uomini a istituire la Società delle Nazioni, con l’evidente intento di unire le nazioni e scongiurare il rischio di nuove guerre, ma ciò non serve a frenare il nazionalismo, che anzi si rafforza.
Intanto, alla fine del XIX secolo, e in modo particolare dopo il secondo conflitto mondiale, si vanno diffondendo nel mondo i principi democratici e nascono le prime DR, che sono fondate sul principio che bisogna dare al popolo l’opportunità di scegliere dei rappresentanti cui affidare il compito di attuare la migliore politica possibile. Ma la grande crisi economica, che si registra nel terzo decennio del XX secolo, porta a credere che la democrazia sia un fallimento e su queste basi si affermano in tutta Europa governi autoritari: “Nel 1939 dei 28 Stati d’Europa solo 11 erano ancora amministrati secondo regole democratiche” (SCHULZE 1995: 333). I dittatori offrono al popolo ordine e sicurezza in cambio di una fedele sottomissione. Ciò che accomuna questi regimi totalitari è l’esaltazione della nazione fino al fanatismo e fino a mettere in ombra la singola persona. Così, secondo Alfredo Rocco, non si deve considerare “la nazione come mezzo per il benessere individuale, ma l’individuo come strumento o organo dei fini nazionali” (in CAMPI 2004: 174).
L’entusiasmo nazionalistico riprende quota. In Europa i XX secolo pullulano di pensatori che pretendono di dimostrare la superiorità di una nazione sulle altre o di una razza (bianca, ariana) sulle altre. Nazionalismo e fascismo si pongono in antitesi con lo spirito illuministico. Contestano che l’individuo sia capace di ragionare con la propria testa e ritengono che abbia bisogno di guide, autorità e gerarchie. Negano valore ai concetti astratti di uomo, libertà, eguaglianza individualismo, e li sostituiscono con le entità più concrete della propria patria, del proprio onore, della propria famiglia, della propria storia. La politica deve piegarsi agli interessi e al potenziamento della propria nazione (nazionalismo). La nazione è più della somma delle sue parti (i cittadini) e la ragion di Stato è prioritaria sulla ragione individuale.
Non tutti però vedono di buon occhio il nazionalismo imperante. Fra i più lucidi critici del nazionalismo vanno ricordati gli Autori del Manifesto di Ventotene (1941), Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni, i quali sostengono che la «nazione», da organismo per la libera convivenza degli uomini e dei popoli, è divenuta un organismo autoreferenziale e animato da una volontà di dominio, che “non potrebbe acquietarsi che nell’egemonia dello stato più forte su tutti gli altri asserviti” (in MARAZZITA 2006: 22). Al centro di tutto e di tutti c’è la nazione con il suo esclusivo ruolo e il suo destino di gloria nel mondo, e poco importa se alla causa di questi sommi obiettivi occorrerà sacrificare la vita di milioni di persone.
Gli anti-nazionalisti sanno che la libertà costa così tanto che molti vi rinunciano, preferendo rifugiarsi sotto l’ala rassicurante di una figura paterna. “In tutta la nostra civiltà vi sono persone le quali, come Dostoevskij sapeva, sentono un assoluto bisogno di «rinunziare quanto prima è possibile al dono della libertà... con cui esse, creature sfortunate, furono create». A queste persone la rinuncia alla libertà procura un senso di sicurezza, ed esse pensano di essere libere perché hanno rinunciato all’obbligo sociale di acquistare un’individualità. Questa è la gente il cui senso di impotenza, di solitudine, di depressione (alla cui base vi è la paura) fa sì che si reggano in piedi governi autoritari come furono quelli di Hitler e Mussolini” (LASKI 1976: 248). L’ignoranza e la paura generano i totalitarismi.
Ci sono voluti gli orrori della seconda guerra mondiale e soprattutto la consapevolezza di disporre dell’arma nucleare, che è potenzialmente distruttiva di tutta la vita sulla terra, per convincere gli uomini a cambiare idea sul nazionalismo. Ciò finalmente fa comprendere agli uomini che hanno raggiunto un limite invalicabile e che devono porre fine alla loro follia e rinsavire. Nasce così l’Organizzazione delle Nazioni Unite (1945). È degno di nota il fatto che si continui a parlare di «nazioni», e non di Stati, segno evidente che la nazione continua a rimanere l’“unico fondamento legittimo dello stato” (THIESSE 2001: 225). Un po’ alla volta, il termine «nazionalismo» finisce per diventare “la più grande vergogna politica del diciannovesimo secolo, la macchia più profonda, più indelebile e senza precedenti nella storia politica del mondo dopo il 1900” (DUNN 1993: 94). Ma ciò non arresta la moltiplicazione degli Stati sovrani nel mondo. Il loro numero, infatti, è in costante ascesa: passa da 66 nel 1945 a 122 nel 1964 e a 185 nel 2000.
Chiudo con una breve considerazione. La nazione non è un fatto naturale o spontaneo, come lo erano stati la famiglia e il clan. Infatti, già la tribù era un prodotto della volontà umana; figuriamoci la nazione, che è l’equivalente di centinaia o migliaia di popolazioni tribali. La nazione dunque è una tipica costruzione umana, la cui caratteristica è quella di non essere più fondata sulla figura del sovrano, almeno non in forma esclusiva, ma sul popolo, e nella quale assume un’importanza speciale l’unità linguistico-culturale, che è simboleggiata dalla scuola di massa, ma anche la cosiddetta volontà popolare, che è veicolata dai partiti di massa e trova espressione nella Carta costituzionale e nel suffragio universale.

5.5. L’Unione Europea
Intanto, anche in Europa (1948) diciotto Stati stringono fra loro un rapporto di cooperazione economica (OECE) “allo scopo di collaborare con il governo degli Stati Uniti nella distribuzione degli aiuti del Piano Marshall” (MARAZZITA 2006: 27), dando così il via ad un lento processo che porterà all’istituzione di un nuovo soggetto politico, l’Unione Europea, alla quale si arriva attraverso le istituzioni intermedie della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (1951) e della Comunità economica europea (1957). Nata dal Trattato di Maastricht (1992), poi ripreso e modificato nei successivi Trattati di Amsterdam (1997) e Nizza (2001), l’Unione Europea prende atto nella sua costituzione che “solo in pace e attraverso la concertazione” sarà possibile realizzare il disegni di un’Europa unita nella diversità (MARAZZITA 2006: 43). Tutto ciò denota la volontà di porre fine al clima di competizione esasperata e di ostilità generato dal nazionalismo estremo e scongiurare così il pericolo di nuove guerre, soprattutto ora che gli uomini sono andati dotandosi di arsenali nucleari sempre più distruttivi.
È vero, dopo la seconda guerra mondiale non se n’è registrata una terza, ma ciò non vuol dire che si è generato un clima di pace e di solidarietà fraterna. Più semplicemente, la guerra aperta, che è divenuta improponibile per la paura delle armi atomiche, ha lasciato il posto alla guerra fredda, ossia ad un clima di tensione subdola e strisciante, segnata da conflitti diplomatici, dalla competizione economica e tecnologica, da sfere d’influenza, da scontri ideologici.
Ma intanto, grazie allo sviluppo dell’aviazione civile, che rende più facili e veloci gli spostamenti di uomini e merci da una parte all’altra del pianeta, e grazie alla diffusione del telefono e della televisione prima e di internet poi, che consentono lo scambio di informazioni e notizie in tempo reale a livello planetario, inizia l’era della globalizzazione, che si rivela in grado di imprimere dei profondi cambiamenti sociale nell’arco di pochi decenni. Adesso l’identità, la sovranità, la cultura, la cittadinanza, l’economia e le unità nazionali (di lingua, di religione, di storia) diventano valori sempre più relativi e anacronistici, tanto da indurre taluno a preconizzare la fine dello Stato-nazione, il quale tuttavia continua a mostrare una straordinaria capacità di resistenza “a dispetto di tutti coloro che con eccessiva fretta ne hanno annunciato la scomparsa dall’orizzonte della storia” (CAMPI 2004: 208). Insomma, con la globalizzazione “lo Stato nazionale è diventato obsoleto”, ma il nazionalismo non è finito, anzi rivive nei tanti movimenti etnici che popolano il pianeta (SMITH 1996: 212).
Volendo ricapitolare, possiamo dire che, a differenza del termine «nazione», che risale all’epoca romana, il termine «nazionalismo» è stato introdotto nel corso dell’Ottocento e, dunque, rappresenta “un fenomeno tipicamente ed esclusivamente moderno” (TUCCARI 1996a: 180). Usato in un primo tempo con valenza prevalentemente negativa, il termine è stato rivalutato in modo consistente a cavallo fra XIX e XX secolo, per caricarsi nuovamente di pesanti connotazioni negative dopo la seconda guerra mondiale.

5.5. Oggi: crisi dello Stato?
Negli ultimi decenni, molti hanno cominciato a parlare di declino dello Stato e non è detto che non abbiano ragione. Effettivamente, oggi, con l’affermazione dei mass-media, della rete telematica, di internet, del villaggio globale, dell’e-commerce, sembrerebbe che la nazione abbia imboccato il viale del tramonto. Del resto, lo aveva previsto lo stesso Renan, insieme alla nascita dell’Europa Unita, più di un secolo fa, quando scriveva: “Le nazioni non sono qualcosa di eterno. Esse hanno avuto un inizio, avranno una fine. La confederazione europea, probabilmente, prenderà il loro posto” (RENAN 1998: 16). Ma perché lo Stato è in crisi?
Una possibile spiegazione consiste nella presa di coscienza da parte di molti che il genere umano è uno e che, fatta salva la propria comunità locale, non è bene che esso venga suddiviso in Stati. “Rispetto ai bisogni di unità internazionale e di autonomia locale, il modello dello Stato nazionale, che organizza la divisione invece dell’unità del genere umano e sviluppa il monismo invece del pluralismo sociale, è diventato anacronistico” (LEVI 1997: 99). Peraltro, lo Stato-nazione è “inconciliabile con l’idea del diritto internazionale” (PORTINARO 1999: 131), di cui si avverte sempre più la necessità. Oggi si avverte il “bisogno della patria, non della nazione” (VIROLI 1995: 172).
Insomma, lo Stato è messo in crisi dall’aumentata domanda di globalizzazione e di particolarismo locale. “Da un lato strutture politiche, norme e istituzioni giuridiche, poteri economici hanno sempre più dimensioni sovranazionali, mentre i caratteri tipici dei popoli nazionali tendono a sfumare sotto la spinta del processo di globalizzazione che porta a un’omogeneità di beni e di modelli culturali. Dall’altro emergono vecchie e nuove forme di identità collettiva costruite su basi etniche, religiose, economiche, che non si identificano con i confini e gli ordinamenti nazionali e rivendicano, a vari livelli, garanzie di tutela e indipendenza” (FACCHI 1997: 115).

5.6. Nazione, nazionalismo, globalizzazione
Verosimilmente oggi l’uomo non è ancora pronto ad assumere una dimensione cosmopolita, condizionato com’è da un retaggio millenario orientato al localismo, che esprime l’esigenza naturale dell’uomo del calore di una famiglia e dei vantaggi che può offrire una piccola patria. Ora, se il localismo è radicato nella mente degli uomini e risponde ad un loro bisogno biologico, il globalismo rappresenta un fatto nuovo, in precedenza inimmaginabile e al quale ci si potrà abituare solo col trascorrere del tempo. Ciò che appare decisamente fuori posto è lo Stato-nazione, che pure è stato così faticosamente e dolorosamente costruito e conservato nel corso degli ultimi due secoli, con il ricorso sia alla forza sia all’indottrinamento culturale.
Oggi dobbiamo avere il coraggio di smantellare questo palco, dimenticare le nostre lingue nazionali, ridimensionare i miti d’origine delle nostre nazioni e ammettere che non ci sono prove a sostegno della reale esistenza delle nazioni. Quello che invece è certo è che esistono le persone. Dobbiamo ammettere che è improprio parlare di superiorità di una nazione rispetto ad un’altra, le uniche vere differenze essendo quelle che intercorrono tra un individuo e l’altro, le quali sono legate in parte al corredo genetico, in parte all’educazione ricevuta, ma indipendenti dalla nazionalità e comunque non tali da giustificare il dominio di una nazione sull’altra. Siamo chiamati a disintossicarci dal nazionalismo che ha impestato l’aria negli ultimi due secoli e puntare, ovunque nel mondo, al potenziamento del capitale umano, che è la risorsa più importante per noi, quella a cui non dobbiamo rinunciare. Per fare ciò occorre innanzitutto migliorare le realtà municipali, facendone luoghi d’incontro, di discussione, di studio e di svago, e rendendole funzionali alla partecipazione politica dei cittadini, ma bisogna anche ricordare che solo una lingua e una moneta mondiale possono veramente creare un clima favorevole ad un cosmopolitismo, che però non dovrebbe penalizzare il nostro bisogno biologico del localismo. Forse è il momento di entrare nell’era del glocalismo.

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