giovedì 20 agosto 2009

3. La famiglia e lo Stato

“Ogni Stato trae la sua origine dalla famiglia” (Bodin 1988: 337). Ma chiediamoci: perché e come si è passati dalla famiglia allo Stato? Per rispondere a questa domanda dovremmo conoscere fatti avvenuti gradatamente nell’arco di centinaia di migliaia di anni, e questo è impossibile. Possiamo, tuttavia, avanzare ipotesi e congetture sulla base di prove indirette, come i resti fossili e le conoscenze scientifiche in campo biologico, antropologico, psicologico e sociologico. Poiché, in nessun campo, ma soprattutto in questo, si può presumere di cogliere la verità, ci tengo a precisare che quanto dirò qui di seguito su questo argomento rappresenta solo la mia opinione personale, che volentieri voglio mettere in discussione.

3.1. Dalla famiglia allo Stato
Secondo Bodin, la salute di uno Stato rispecchia quella della famiglia: “come il corpo gode buona salute se tutte le membra, ciascuna dal canto suo, compiono l’ufficio ch’è loro proprio, così lo Stato procede bene se tutte le famiglie in esso sono ben governate” (1964: 173). Dal momento che parte da una logica di gruppo, non ci meravigliamo che Bodin non veda l’individuo e non dica «se sono in buona salute gli individui, sarà in buona salute anche lo Stato». Lo studioso, tuttavia, ha il merito di cogliere lo stretto rapporto che intercorre fra le parti e il tutto e ci offre l’occasione di approfondire questo tema.
L’affermazione dello Stato fa seguito ad una lenta e progressiva perdita di funzioni della famiglia, che, in alcune regioni del pianeta, a causa di uno straordinario incremento demografico, non è più in grado di rispondere in modo soddisfacente ai bisogni degli individui, i quali, pertanto, cercano di stringere alleanze con altre famiglie, creando così gruppi sempre più estesi, che alla fine, intorno a 40 mila anni fa, danno luogo alla tribù. All’interno della tribù è possibile che alcuni individui si specializzino in un certo lavoro in modo tale da realizzare un migliore sfruttamento delle risorse e un surplus produttivo, che poi viene scambiato all’interno della stessa tribù o anche con altre tribù, creando così i presupposti per stringere nuove alleanze, questa volta fra tribù, ma anche per approntare forme di organizzazione interna, da cui prenderanno origine i domìni, le città-stato e i regni.
Prima che si affermasse la società tribale, la famiglia ha svolto un ruolo essenziale e ha rappresentato un punto di riferimento necessario e irrinunciabile per l’individuo, il quale doveva trovare in essa ogni risposta ai propri bisogni. Nella società tribale questa stretta dipendenza dalla famiglia comincia ad allentarsi e si cominciano a costituire gruppi di uomini armati capaci di vita autonoma, ma anche singole personalità invasate da spiriti che si isolano dalla comunità e vivono raminghe. Con la nascita dello Stato questo quadro si evolve ulteriormente: le squadre di uomini armati diventano eserciti, gli uomini invasati da spiriti diventano titolari di luoghi sacri e santuari. A ciò si aggiungono nuove figure di lavoratori: artigiani, contadini e commercianti, che vivono per l’intera giornata all’interno di una bottega, di un campo o nei mercati cittadini, ma anche e soprattutto mercanti, che percorrono lunghe distanze stando per lunghi periodi lontano dalle proprie famiglie. Nello stesso tempo, migliorano le condizioni di vita e nascono nuove esigenze. Insomma, con l’avvento dello Stato, i bisogni degli individui vanno aumentando e la famiglia va perdendo quota. “Le sue funzioni educative, di socializzazione, di assistenza, sono in gran parte cedute allo Stato, o ad apparati pubblici e semipubblici” (MANCINA 1981: 54).

3.2. I limiti della famiglia
Se la famiglia non avesse avuto dei limiti importanti non si sarebbero affermati sistemi sociali sempre più ampi, come la banda, il clan, la tribù, il dominio e lo Stato. Dal punto di vista antropologico, questi limiti sono stati argomento d’analisi nel blog sulla preistoria politica. In questa sede, ci limiteremo a prendere in considerazione i limiti che la famiglia continua a mostrare ai giorni nostri.
Per lo più la famiglia è stata considerata nel corso dei secoli come qualcosa di naturale, di fondamentale, di insopprimibile, se non addirittura come qualcosa di sacro e inviolabile. Ancora sessant’anni fa Anshen vedeva nella famiglia “la più elementare e universale forma di società, che contiene tutte le molteplici potenzialità per l’esplicarsi della personalità umana” (1974: 27), ma le funzioni e il ruolo della famiglia sono andati profondamente cambiando negli ultimi decenni. Le conclusioni di Bowlby, riguardanti i gravi effetti sul bambino derivanti dalla separazione definitiva dalla madre, sono state smentite da studi successivi (cfr. RUTTER 1973), e oggi la famiglia è vista spesso come un semplice strumento atto a tenere unite persone che, se fossero estranee, potrebbero non andare d’accordo.
L’essere membro di una famiglia comporta degli obblighi nei confronti della preservazione dell’unità familiare, che è vista come un valore in sé, in difesa del quale ci si aspetta che ciascuno sia disposto a sacrificarsi. Sotto questo aspetto, possiamo dire che la famiglia “oscura la visione del singolo” (LAING 1973: 18). D’altra parte, oggi appare evidente che un bambino può svilupparsi bene anche al di fuori della famiglia biologica e, se il bambino può fare a meno dei genitori, anche questi possono fare a meno dei figli. “Mentre prima il bambino era un bene individuale, sul quale la famiglia contava per la propria sopravvivenza, ora è un bene sociale, una ricchezza della quale tutta la collettività deve farsi carico perché tutta la collettività ne trae beneficio” (BELOTTI 1981: 136-7). Questa consapevolezza rappresenta una delle più importanti acquisizioni della nostra età contemporanea.
La famiglia è sempre meno capace di rispondere alle aspettative dei singoli membri che la compongono e la sua “situazione di crisi” (BERGER 1977: 131) trova espressione nell’aumento dei divorzi, delle persone che vivono da sole e delle donne che lavorano. Comincia anche a serpeggiare il dubbio che la famiglia non sia all’altezza dei compiti che ha svolto nel passato, né che debba continuare a rappresentare il luogo privilegiato della realizzazione personale, come è sembrato esserlo fino ai nostri giorni (BERGER 1977: 132). Ma, nello stesso tempo, la famiglia continua ad essere investita di un ruolo insostituibile nella formazione dell’uomo e del cittadino, e questa situazione non può non apparire contraddittoria. Da un lato, infatti, la famiglia sembra essere un istituto non più strettamente necessario ai fini della cura e della socializzazione del bambino, dall’altro lato essa continua ad essere ritenuta un istituto fondamentale e di primaria importanza.
Da un quadro così incoerente non possono che emergere effetti negativi tanto per i genitori quanto per i figli, che finiscono per riflettersi pesantemente sull’intero sistema sociale e politico. Si consideri la condizione dei figli. Anche dopo che hanno raggiunto l’età adulta, essi rimangono spesso in casa coi genitori e sono trattati come bambini, con grande nocumento del loro processo di maturazione, che varia a seconda del genere. Nel ragazzo la costante presenza del modello materno e la frequente impossibilità di osservare il modello paterno (svolgendo spesso il padre la propria attività fuori casa), si realizza una situazione conflittuale e ambivalente: da un lato egli tende ad identificarsi con la madre ma, dall’altro lato, è chiamato a comportarsi da maschio e dovrebbe provare vergogna se gli altri lo etichettassero «femminuccia». Per la ragazza è più facile interiorizzare il modello della madre, ma è più difficile, una volta divenuta donna, conciliare il suo desiderio di realizzazione professionale con la necessità di prendersi cura della prole e di occuparsi, in senso lato, dei problemi domestici. In molti casi essa deve scegliere fra due soluzioni contrapposte: “o si sacrifica la famiglia per salvare la professione, o si rinuncia alla professione per dedicarsi alla famiglia” (TESTA 1978: 127). La terza soluzione, cioè salvare l’una e l’altra, è, il più delle volte, insostenibile, e non è un caso che la famiglia è stata definita come “il luogo centrale di riproduzione della subordinazione femminile” (DAVID, VICARELLI 1983: XI).
Sul comportamento di ruolo delle donne influiscono “alcune credenze preconcette, apprese fin dalla primissima infanzia e riconfermate dalle relazioni sociali e dai mass-media, riconducibili ad uno stereotipo maschile e femminile funzionale a determinate strutture di potere economico e politico” (VICARELLI 1980: 251-2). “L’uomo è coraggioso ed audace, la donna paurosa ed apprensiva, l’uomo è forte, la donna è fragile, l’uomo è interessato alla politica, la donna ai problemi domestici, l’uomo è dominante, autoritario e superiore, la donna è religiosa, capace di sacrificarsi e di sopportare. Ne risulta una contrapposizione che non è solo di interessi e di sfera di attività ma soprattutto di potere. Certi caratteri del ruolo femminile, proprio perché riconosciuti alla donna e dalla donna come impliciti nella sua natura e nel suo modo universale d’essere, ne sanciscono la dipendenza e la subordinazione. Se sono paurosa, apprensiva, emotiva, ho bisogno di qualcuno che sia forte, coraggioso ed audace.
Altri tratti in quanto esaltanti il carattere espressivo del ruolo femminile, la dolcezza, la delicatezza, la sensibilità, sanciscono l’accettazione e la legittimazione di un ruolo subordinato sotto l’ideologia dell’amore e degli affetti. In una società, infatti, in cui i valori dominanti sono la produzione e il profitto e in una cultura che esalta la razionalità e la conoscenza oggettiva, che ruolo assumono il sentimento e l’amore se non quello di legittimare l’esclusione? Infine, alcune capacità richieste alle donne, quali l’ordine, l’interesse per la casa, la sopportazione e il sacrificio, definiscono un comportamento necessario per il mantenimento di una rigida divisione del lavoro e dei compiti tra i sessi” (VICARELLI 1980: 267-8). Tutto ciò tradisce “la contraddizione di un sistema che nel riconoscere gli uomini e le donne uguali, continua a richiedere alla donna un ruolo dipendente e subordinato” (VICARELLI 1980: 270).
La famiglia genera anche disuguaglianze legate a differenti opportunità che vengono offerte agli individui di entrambi i sessi di dare piena espressione ai propri talenti. Il bambino, infatti, non ha, nella società, altro stato sociale che quello dei genitori e le sue opportunità, oltre che le sue aspirazioni, cambiano a seconda della classe di appartenenza della propria famiglia. Il peso della famiglia non cessa durante tutto il corso di vita di una persona, ma, anche qui, con notevoli differenze da caso a caso. Così, molti genitori aiutano in vario modo i propri figli ormai adulti, per esempio offrendo loro denaro, prestiti agevolati, regali, servizi e lasciti ereditari, mentre molti altri non ricevono alcun aiuto consistente dai propri genitori oppure, anziché riceverlo, si trovano costretti a darlo. Tutto ciò finisce col diventare un fattore discriminante nei confronti delle giovani coppie, sicché alcune sono favorite, altre svantaggiate dall’appartenenza familiare. “Finché la nostra struttura familiare rimarrà quella che è, non sarà possibile realizzare, nella corsa al successo personale, l’ideale nazionale di parità di condizioni, che tutti i contendenti, cioè, muovano dallo stesso punto di partenza” (in ANSHEN 1974: 267) e, alla fine, non sarà esagerato affermare che la famiglia è il crogiuolo di tutte le disuguaglianze.
Oggi le persone interpretano più ruoli insieme. Ognuna di esse, infatti, non è più solo un membro di una famiglia, ma è anche un soldato, un contadino, un mercante, un seguace di una religione, e via dicendo. La famiglia ha perso, dunque, il suo eclusivismo funzionale, ma è continuata ad essere un’importante istituzione dello Stato e tale è rimasta nel corso dei millenni, fino ai giorni nostri. Sennonché, negli ultimi decenni, la famiglia sembra essere entrata in una fase di crisi irreversibile, che è resa ancora più grave dal fatto che oggi lo Stato dispone delle conoscenze e dei mezzi necessari per surrogare adeguatamente la famiglia in tutte, o quali, le funzioni che l’hanno contraddistinta sin dalle origini. Oggi la famiglia non è più un rifugio sicuro per gli individui e la sua influenza sui propri membri non è sempre positiva, anzi, sempre più spesso, essa intralcia i progetti di vita delle persone e ne limita la libertà.

3.3. Le responsabilità dello Stato
In teoria, uno Stato che sia all’altezza del suo ruolo atteso dovrebbe poter esautorare o surrogare la famiglia in tutte quelle funzioni per le quali essa non si senta più all’altezza, ma questo significherebbe trovare risposte concrete e valide a tutte quelle domande che gli individui ponevano un tempo alla famiglia. Ma in pratica lo Stato preferisce interagire con le istituzioni da lui stesso create, famiglia compresa, piuttosto che con le singole persone, disattendendo così al compito al quale è chiamato. “L’unità delle società è la famiglia e non l’individuo” (ERNST-HENRION 1974: 145). Lo Stato produce istituzioni, è fatto di istituzioni, si relaziona con istituzioni, la famiglia è un’istituzione, lo stesso cittadino è un’istituzione. Ed è per questo che, nel corso della storia, non si è mai visto uno Stato capace di rapportarsi direttamente con i propri cittadini, di rispondere alle loro necessità e soddisfare i loro bisogni. Perciò la famiglia deve continuare a farsi carico delle sue tradizionali funzioni, anche quando non ne è all’altezza, col rischio di danneggiare i suoi stessi figli.

3.4. Il pasticcio del familismo
All’origine di questa incapacità dello Stato di stabilire un filo diretto con le singole persone c’è la logica di gruppo, che poi è una logica di potere, la quale, alla fine, si traduce in un sovraccarico funzionale delle famiglie e in una limitazione della libertà dei singoli cittadini. Insomma, con lo Stato l’intera società si istituzionalizza e la singola persona perde in visibilità e in valore. Ora, la famiglia è la più elementare istituzione dello Stato. Essa è come uno Stato nello Stato, ha un proprio bilancio economico, una propria politica interna ed esterna, una propria cultura, una propria tradizione, un proprio codice morale e un proprio sistema di valori, cui si sente legata e che considera di sommo livello. All’interno di ciascuna famiglia si coltiva una sorta di nazionalismo in miniatura, che possiamo chiamare «familismo»: la convinzione di essere, per qualche verso, migliori o, almeno, non inferiori ai membri di altre famiglie.

3.5 La famiglia nell’Italia di oggi
“In Italia la vecchia espressione «tengo famiglia» significa l’impossibilità di cambiamento, di rischio e di ribellarsi al sopruso” (SARACENO 1975:172). «Tengo famiglia» significa sentirci condizionati in tutte le nostre scelte dai doveri che ci legano ai parenti più prossimi, significa rinunciare alla libertà di sviluppare ed esprimere un proprio pensiero o una propria condotta, per paura che da ciò possa derivare un qualche danno ai propri congiunti, significa evitare il rischio, diffidare delle novità, perseguire una politica collettivistica, curare un’immagine di gruppo, badare al patrimonio familiare e trascurare i princìpi di giustizia individuali. Così, ogni membro ha un suo cliché da rispettare: il padre deve svolgere un’attività lavorativa ben remunerata ed evitare di mettersi nelle condizioni di essere declassato o licenziato. Perciò egli si comporterà come vogliono i suoi superiori ed eviterà di assumere atteggiamenti ribelli, che possano mettere in crisi il suo ruolo primario, che è quello di principale fonte economica per la famiglia. La madre è chiamata a svolgere un altro importante ruolo ad integrazione di quello svolto dal marito, che comprenda non solo la percezione di un reddito, ma anche la cura della casa e dei figli. Essere «figlio di papà» significa essere favorito nella vita e nella carriera dalla posizione di un padre ricco e influente, trarre vantaggio da una situazione familiare particolarmente fortunata e positiva. Parimenti, essere «figlio di nessuno» significa essere tagliato fuori dai giochi che contano e non avere concrete possibilità di diventare qualcuno.
Oggi assistiamo ad un paradosso: pur essendo in grado di surrogare la famiglia, lo Stato elude questo suo ruolo primario e continua a caricare sulla famiglia un peso che questa non in grado di sopportare. L’ostinazione a investire la famiglia di eccessive responsabilità origina dalla negligenza dello Stato e nel suo rifiuto a relazionarsi direttamente col singolo individuo. Ora, dobbiamo chiederci come funziona la famiglia all’interno di uno Stato che non intende surrogarla?
Dopo la morte, i genitori lasciano i loro averi ai propri figli e, se non lo fanno, la gente mormora e i figli reclamano i propri diritti per via legale. Se i genitori hanno bisogno di denaro o di assistenza personale, l’opinione pubblica vuole che siano i figli a rispondere. I figli devono soccorrere i genitori bisognosi, e i genitori devono lasciare tutti i propri averi ai figli, questo vuole la gente e così pure la legge. Se un padre (o una madre) si ammala gravemente, il progetto di vita del coniuge viene letteralmente sconvolto. Quello dei figli anche. La fedina penale sporca o il successo di un padre (di una madre o di un figlio) si ripercuotono sull’immagine dell’intera famiglia, e se il membro di una famiglia è portatore di gravi handicap, o è oggetto di eventi avversi, o esibisce comportanti stravaganti o patologici, il progetto di vita dei suoi familiari ne viene condizionato.
Se vuole evitare di arrecare danno a qualcuno dei propri membri, una famiglia dovrà curare la propria reputazione, il che significa che dovrà comportarsi secondo le aspettative della cultura dominante e diffondere di sé un’immagine che venga percepita in modo positivo. Bisogna, insomma, dimostrare di averci saputo fare, di essere stati buoni genitori e buoni cittadini, di non essere da meno degli altri, di aver conseguito l’agiatezza economica, di aver svolto al meglio il proprio compito. Più ci si allontana da questo modello di perfezione, il che può avvenire per le ragioni più disparate (calamità, malattie, abuso di alcol, uso di droghe, devianza sociale, criminalità, rovesci di fortuna), maggiore è il rischio di conseguenze negative per l’immagine della famiglia e per il futuro dei suoi membri.
Per preservare il buon nome della famiglia, i genitori si adoperano perché i loro figli non siano da meno dei loro coetanei e, nello stesso tempo, eccellano per intelligenza e saper fare, dimostrando coi fatti di appartenere ad una famiglia che vale. I figli normali di una famiglia dabbene frequentano le migliori scuole e sono avviati a ricoprire ruoli sociali di alto prestigio e ben remunerati. I figli malati o con quoziente intellettivo inferiore alla media vengono invece pietosamente occultati agli occhi della gente e fatti seguire con discrezione in Centri privati, affinché l’immagine della famiglia non ne riceva un danno. Nello stesso tempo vengono incoraggiati i matrimoni fra persone almeno di pari livello, con lo scopo di preservare o accrescere il patrimonio familiare. Quando le cose vanno bene, nell’arco di poche generazioni, alcune famiglie possono creare dei veri e propri imperi economici, grazie ai quali riescono ad influenzare la politica del proprio paese. La gente prova ammirazione per un figlio capace di incrementare gli averi che ha ricevuto in eredità e per le grandi fortune delle famiglie.
Talvolta però le cose girano male e una famiglia di alto-medio livello può venirsi a trovare ai livelli più bassi della scala sociale, dove non c’è più niente da perdere, a parte la propria inutile vita. In questa fascia sociale a mala pena i figli frequentano la scuola dell’obbligo e, il più delle volte, iniziano precocemente un’umile attività di lavoro o imparano a vivere di espedienti. Si possono sposare solo all’interno della stessa classe sociale e, quando va bene, ottengono per i loro figli un tranquillo posto statale, che li tira fuori dalla miseria. Ma se va male, si vedono costretti a bussare alle porte di tutte le strutture assistenziali e caritatevoli, come il comune, la chiesa o lo Stato, a cui chiedono un alloggio, capi d’abbigliamento, viveri, servizi, aiuti in denaro e sussidi vari. In altri termini, devono calarsi nell’infelice e degradante ruolo di parassiti della collettività.
La famiglia finisce così col costituire un ambiente relativamente chiuso, una sorta di gabbia, i cui membri si condizionano reciprocamente in tutti gli aspetti della loro vita: nell’educazione, nella scelta di lavoro, nel matrimonio, nello status sociale, e anche nei valori. Le famiglie più facoltose sviluppano una mentalità di tipo aristocratico e ritengono giusto che il governo preservi le loro fortune e i loro privilegi. Nello stesso tempo, si aspettano dal popolo un sentimento di riconoscenza per i loro meriti e per i servigi che essi hanno saputo dare al paese, anche in termini di creazione di posti di lavoro, di aumento della ricchezza nazionale e di prestigio a livello internazionale, vogliono abolire le imposte di successione e ridurre al minimo la tassazione sulle proprietà immobiliari e sui profitti che derivano dagli investimenti finanziari, difendono le tradizioni liberali del proprio paese, vogliono lo status quo e votano a Destra. E lo stesso fanno quelle famiglie della classe media che, pur non trovandosi al vertice della società, aspirano ad arrivarci. Le famiglie più povere sognano invece il cambiamento sociale, vogliono maggiore giustizia ed equità, ossia una società più egalitaria, che faccia pagare le tasse in modo proporzionale al reddito, che offra più servizi e più lavoro per tutti, che riconosca le pari opportunità. In teoria esse dovrebbero sviluppare una mentalità orientata a Sinistra, anche se spesso finiscono per lasciarsi incantare dai bei discorsi e dalle promesse di qualche abile esponente della Destra o, più semplicemente, si disinteressano della politica.
Alla fine, ricchi e poveri rimangono vittime dei loro stessi interessi e delle loro paure. I ricchi non amano il rischio della novità, per paura di perdere, e lo stesso fanno i poveri, ma per una ragione diversa: si sentono incapaci di cavalcare il cambiamento. Così, alla fine, la famiglia si riduce ad una sorta di piccola corporazione, intenta alla tutela dei propri interessi e chiusa in se stessa. Tutte le famiglie difendono qualcosa: quelle ricche il proprio patrimonio e il proprio status sociale, quelle povere la casa popolare e il sussidio di disoccupazione.
La famiglia è veicolo di valori sociali che, il più delle volte, si ispirano alla tradizione e alla cultura corrente dominante. Tra i principali valori propagati dalla famiglia, dobbiamo ricordare quelli dell’autorità paterna, della subordinazione della donna, dell’ubbidienza e del conformismo. David Cooper ha osservato che la famiglia non stimola la libertà creativa dei figli, bensì il loro perfetto e atraumatico inserimento nell’ordine sociale dato. Secondo lo studioso, “la prima cosa che si insegna al bambino non è come sopravvivere nella società, ma come sottomettersi ad essa” (COOPER 1972: 29). Così, alla fine, la famiglia diventa un pilastro dello status quo, una paladina del conformismo, un’istituzione funzionale ai rapporti di classe e di potere, un fondamentale sostegno alla società duale, uno strumento di cristallizzazione sociale.

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