giovedì 20 agosto 2009

2. Lo Stato

Un’adeguata conoscenza dello Stato è da ritenere di fondamentale importanza per chi intenda occuparsi di politica ed è per questa ragione che riserverò un adeguato spazio a questo tema. Intorno all’organizzazione sociale e allo Stato gli uomini si sono posti lungo l’intero corso della storia molte domande cruciali, alle quali sono state date risposte varie, ma non definitive e nemmeno tali da meritare un generale consenso. Io vorrei ora entrare nel merito della questione con l’intento di trovare risposte più puntuali e concrete, che tuttavia non vogliono avere la presunzione di essere risposte definitive.

2.1 Che cos’è lo Stato?
Lo Stato è una creazione dell’età contemporanea. Prima del 1800, gli Stati nel mondo erano poco più di venti. Il loro numero è cresciuto di 36 unità fino al 1917 e di 160 fino al 2000 (GUARRACINO 1997: 259). Ma che cos’è lo Stato? Per quanto sorprendente possa sembrare, accade spesso che, di fronte a termini molto familiari, che crediamo di conoscere a perfezione, quando poi tentiamo di definirli ci accorgiamo che l’impresa è assai più ardua di quello che potevamo immaginare. Il termine Stato è uno di questi. Ce lo spiega David Easton: “Cos’è lo stato? Un autore pretende di aver collezionato centoquarantacinque definizioni diverse. Di rado gli uomini si sono trovati in tale disaccordo su un termine. La confusione e la diversità di significati sono così vaste che è quasi incredibile che negli ultimi duemilacinquecento anni in cui il problema è stato discusso e ridiscusso in una forma o in un’altra, non si sia giunti a qualche forma di uniformità. Vi è chi vede lo stato come l’incarnazione dello spirito morale, la sua espressione concreta; vi è chi lo vede come lo strumento dello sfruttamento di una classe da parte di un’altra. Vi è chi lo definisce semplicemente come un aspetto della società, distinguibile da questa soltanto a fini analitici; vi è chi lo considera semplicemente un sinonimo di governo; e vi è ancora chi lo vede come un’associazione diversa ed unica tra un grande numero di altre associazioni come la chiesa, i sindacati, e altri gruppi volontari analoghi” (1973: 134).
Ora, quando qualcosa è difficile da definire, sicuramente essa deve avere un che di complesso e tale da poter essere valutato da molteplici punti di osservazione. Sotto questo aspetto, avendo noi un punto di osservazione ben preciso, che quello politico, siamo avvantaggiati in quest’impresa e possiamo così superare quel senso di disagio che solitamente proviamo di fronte a tutto ciò che è vago e indefinito. Pertanto, chiamerò Stato una comunità di persone che vive in un territorio ben definito, secondo un ordine stabilito da leggi emanate da un organo di governo e garantito dal monopolio della forza da parte del governo stesso, che è stretto intorno alla figura di un capo.
Comunque lo si voglia definire, lo Stato è una costruzione umana e, più precisamente, una società composta da un certo numero di popolazioni indipendenti che, per una qualche ragione, decidono di darsi un’organizzazione unitaria, di sottomettersi allo stesso organo di potere, o allo stesso dio o ad uno stesso ordinamento giuridico. Chiamiamo «complessa» questa costruzione perché essa deve la sua esistenza alla concorrenza di diversi fattori, come la presenza di organi di comando gerarchicamente ordinati, di un apparato amministrativo, di una certa unità giuridica, linguistica e religiosa, oltre che di usi e costumi, di pesi e misure, di storia e tradizioni in qualche misura condivisi. Perché si possa parlare di Stato occorre, tuttavia, un altro elemento, che è la coscienza di questa unità. Ora, la coscienza di Stato, o se preferiamo di popolo, è acquisibile solo in relazione ad altri Stati e altri popoli, si determina cioè attraverso il confronto incessante di uno Stato con l’altro.

2.2. Origini dello Stato
Per ben comprendere l’origine dello Stato bisogna partire dal cosiddetto uomo primitivo e dallo «stato di natura». Ho avuto modo di approfondire questa questione nel blog sulla Preistoria politica, dove assumo che il Sapiens si sia affermato circa centomila anni fa e abbia affidato le sue speranze di sopravvivenza alla famiglia. Gli sono poi occorsi 95 mila anni prima di approdare allo Stato e, in questo lungo arco di tempo, è passato per le tappe intermedie che chiamiamo società di «clan», di «tribù» e di «dominio». Lo Stato esiste dunque «solo» da 5 mila anni o poco più, ma si sono dovuti aspettare gli antichi greci prima che qualcuno fosse capace di elaborare una riflessione filosofica sullo Stato e sulla questione politica ad esso sottesa.

2.3. Nasce prima lo Stato o l’individuo?
Tra le prime domande che si sono posti i greci c’è la seguente: nasce prima l’individuo o lo Stato? Aristotele ha risposto che lo Stato “esiste per natura” (Pol. I, 1253a) ed “è anteriore a ciascun individuo” (Pol. I, 1253a). Questa posizione, che ha dominato la scena almeno fino alla Rivoluzione francese, giustifica il sacrificio dell’individuo a beneficio dello Stato, ma non contempla il sacrificio dello Stato a beneficio dell’individuo, ed è perciò gradita a chi abbia a cuore le sorti dello Stato (la sua ricchezza, la sua potenza militare, la sua politica di grandezza) piuttosto che quelle dell’individuo e i suoi diritti fondamentali. Questo concetto è ben illustrato da un passo delle più famosa opera di Jean Bodin, in cui lo studioso si interroga su come si debba comportare un magistrato il quale, nel mentre stia eseguendo per ordine del principe un’esecuzione capitale di un gruppo di persone, venga raggiunto da un contrordine da parte dello stesso principe che ingiunga la sospensione dell’esecuzione per la caduta delle prove a carico dei condannati. Ebbene, secondo Bodin, il magistrato non sarà tenuto ad obbedire se ravvisasse che da quella sospensione potesse derivare pregiudizio per lo Stato (1988: 162).
Secondo il nostro assunto, invece, non solo lo Stato è sicuramente posteriore all’individuo, ma è anche al suo servizio e, dunque, troviamo ingiustificato il punto di vista di Bodin e di tutti coloro che antepongono gli interessi dello Stato agli interessi delle persone.

2.4. In origine c’è la famiglia …
L’individuo umano è un essere singolare, unico e compiuto, ma anche sociale, il cui scopo naturale è quello di trovare una risposta ai propri bisogni all’interno della comunità in cui vive, ovverosia, di comportarsi in modo egoistico e, insieme, socievole. Quali sono le prime forme sociali? La prima forma di società umana a noi nota è la famiglia. E che cos’è la famiglia? Possiamo vederla come uno strumento selezionato dalla natura ai fini della riproduzione e della sopravvivenza della specie. Fin dai tempi degli ominidi, ossia per milioni di anni, essa ha svolto bene la sua funzione, provvedendo a soddisfare i bisogni della prole fino al raggiungimento dell’età adulta, ma solo fino a questo momento. Infatti, quando il bambino raggiunge l’età adulta, i genitori lo allontanano ed egli dovrà provvedere a se stesso.
All’interno della famiglia la divisione del lavoro è limitata alla funzione riproduttiva. Il peso maggiore della cura dei figli grava sulla madre, almeno fino a quando il bambino ha bisogno del suo latte. Dopo lo svezzamento, i bambini cominciano a darsi da fare e imparano imitando i grandi nell’attività di raccolta del cibo e nell’affrontare i pericoli, finché, col sopraggiungere della pubertà, sono in grado di fare da soli. All’interno della famiglia domina la regola che ciascuno fa quello che può e gli adulti aiutano i piccoli nei loro bisogni e li educano all’autonomia.
La coesione della famiglia è assicurata da diverse forze d’attrazione, che sono fondamentalmente di tre specie: l’attrazione sessuale fra gli adulti, il legame parentale fra la madre e i suoi piccoli, i legami di prossimità che si sviluppano spontaneamente fra tutti gli individui che vivono in stretta vicinanza fin dall’infanzia e che chiamiamo empatia. Pietà, compassione, solidarietà, e via dicendo. Se non esistessero queste forze coesive, la famiglia sarebbe soggetta unicamente alla legge del più forte e, in pratica, non potrebbe sussistere.

2.5. … Poi vengono la banda, il clan e la tribù
Ora, i fattori naturali di coesione sociale valgono per la famiglia ed anche per la banda, ma non funzionano nelle società più estese e complesse, come il clan e la tribù, di cui l’uomo, spinto “dalla molteplicità dei suoi desideri e dai continui ostacoli che egli incontra nei suoi sforzi per soddisfarli” (Mandeville 2000: 245), avverte il bisogno per questioni di sopravvivenza.
Il clan è la prima forma di società di tipo umanoide, non più fondata unicamente sui legami naturali, ma anche su fattori culturali, che sono prevalentemente di tipo religioso. Questi fattori di coesione (naturali e culturali) raggiungono la massima condizione di equilibrio nella società tribale che, proprio per questo, può essere considerata la prima forma di società di tipo umano. Essa si afferma perché è in grado di sfruttare meglio le risorse del territorio e di tutelare con maggior successo l’individuo da ogni possibile situazione di pericolo, come infortuni, malattie, carestie, calamità naturali, attacchi di nemici, e via dicendo, aumentandone le probabilità di sopravvivenza. La tribù però non è ancora uno Stato vero e proprio. Essa è la più complessa forma di società a costituzione spontanea, il capolinea del cosiddetto «stato di natura», quello che fa dire a Denis Diderot: “Gli uomini si sono raccolti in società per istinto, come gli animali deboli si raccolgono in gruppi. Certamente non c’è stato all’inizio nessun genere di convenzione” (1967: 419). Fino alla tribù l’uomo è un animale fra i tanti, magari il più evoluto, ma privo di aspetti qualitativamente superiori a quelli di altri animali.

2.6. Le società pre-statali
La situazione cambia quando l’uomo riesce a creare società ancora più estese e complesse di quelle tribali, come le società pre-statali, in cui la coesione sociale è ormai prevalentemente affidata a fattori culturali.
È ipotizzabile che le prime forme di società pre-statali nascano in situazioni critiche o di pericolo, quando un gruppo tribale può vedersi costretto a eleggere un capo militare e a conferirgli ampi poteri. Cessato il pericolo, il condottiero perde la sua funzione e ritorna ad essere uno dei tanti capifamiglia, ma ormai la situazione non è più quella di prima. D’ora in poi, infatti, la tribù è disponibile a modificare il suo assetto sociale e a mobilitarsi sotto un capo ad ogni serio pericolo che si profili all’orizzonte. È su questa nuova sensibilità che si sviluppa la società pre-statale o dominio.
Quando non si scorgono importanti pericoli all’orizzonte, il dominio si scioglie e che ogni clan tende a vivere quanto più possibile autonomamente rispetto agli altri clan. All’interno di un clan, tutti vivono in condizioni di uguaglianza e nessuno comanda su un altro. Il cacciatore divide la preda catturata con gli altri membri del clan perché sa che un giorno le parti si potrebbero invertire. Esistono certo i leader, che sono i membri riconosciuti più capaci o semplicemente i più anziani, ma essi non esercitano un potere ben definito e primeggiano più con la persuasione che con la forza. Il vero potere sovrano risiede nel consenso e nessuno è tanto forte da osare sfidare il giudizio della collettività. Per chi perda il consenso non resta che l’infamia, la gogna, l’esilio, la morte.
Le società pre-statali non conoscono la scrittura, né dispongono di un apparato amministrativo o di un esercito permanente. La proprietà privata non è ancora un diritto. Essa va prima conquistata e poi difesa con la forza, e, infine, lasciata ai figli, che devono continuare a difenderla con la forza. In questo contesto si determina uno stato di guerra permanente fra clan, che trova espressione nel brigantaggio, nel banditismo, nella pirateria. Fra i clan domina la legge del più forte ed è questa legge che induce intere tribù a puntare sulle armi e a specializzarsi in attività predatorie.

2.7. Dallo stato di natura allo Stato politico
Per tutto il corso dell’età moderna, molti studiosi, da Hobbes a Locke, da Pufendorf a Grozio, da Rousseau a Kant, si sono interrogati su come vivessero gli uomini prima dell’affermazione della società civile, ossia nel cosiddetto «stato di natura». Quel che sembra a tutti certo è che “L’uomo nello stato di natura non conosce sovrani; ogni individuo è uguale all’altro, e gode della più perfetta indipendenza; in questo stato l’unica subordinazione è quella dei figli al padre” (DIDEROT 1967: 726). Come correttamente ha osservato Norberto Bobbio, “lo Stato, inteso come ordinamento politico di una comunità, nasce dalla dissoluzione della comunità primitiva fondata sui legami di parentela e dalla formazione di comunità più ampie derivanti dall’unione di più gruppi familiari per ragioni di sopravvivenza interne (il sostentamento) ed esterne (la difesa)” (1985: 63).
A differenza della famiglia, che deve la propria coesione a legami di tipo biologico, lo Stato è una società di tipo prevalentemente culturale, una società cioè che deve la propria coesione all’unità della lingua, di costumi, di fede religiosa e di tradizioni. Ma su come vivessero effettivamente le persone nello stato di natura nessuno lo può sapere ed è naturale che le opinioni degli studiosi divergano. Per Hobbes lo stato di natura è una condizione di guerra di tutti contro tutti. Per Locke è una condizione difficile, ma non disperata, dove i singoli hanno l’opportunità di scegliere, fra diverse alternative, quella migliore per sé e le proprie famiglie. Rousseau invece evoca il modello biblico di caduta da uno stato di perfezione iniziale e immagina lo stato di natura come una condizione idilliaca e il progresso come la perdita di tale condizione. Ora, da quanto abbiamo detto sopra, possiamo affermare che sicuramente Rousseau aveva torto e che la verità oscilla tra la tesi di Locke e quella di Hobbes.
Verosimilmente, è nelle regioni più popolose che il quadro sociale si avvicina maggiormente all’idea hobbesiana di guerra di tutti contro tutti ed è qui che, per sfuggire a questa insostenibile situazione, l’uomo concepisce l’idea di Stato e trova il modo di realizzarla.

2.8. Teorie sulle origini sullo Stato
Sulle origini dello Stato, due principali teorie si contendono il campo.
La prima, che chiameremo statalista, viene abitualmente ricondotta ad Aristotele e Cicerone, anche se, come vedremo, le cose non stanno esattamente così, almeno per quanto concerne lo Stagirita. Secondo questa teoria, l’uomo è un essere sociale e, per natura, non può fare a meno di dar vita a forme sociali complesse. Lo Stato è, dunque, opera della natura ed esiste indipendentemente dal singolo individuo. Esso è una realtà originaria, dotata di leggi proprie, che gli individui possono solo scoprire e alle quali devono adeguarsi. Questa tesi, che è stata portata alle estreme conseguenze dal romanticismo tedesco e, in particolare, dal pensiero di Hegel, ha continuato a trovare numerosi sostenitori. Basti ricordare i nomi di Comte, Durkheim e Lévi-Strauss, i quali concordano su un punto, e cioè “che l’individuo è un’astrazione e che solo la totalità è reale” (BOUDON 1991: 470). Per costoro lo Stato è l’unico soggetto della storia. In realtà, questa teoria andrebbe abbandonata perché non regge all’evidenza che emerge dalle nostre conoscenze psicosociologiche e storiche.
La seconda teoria, che chiameremo conflittuale o individualista, può essere fatta risalire a Protagora e Democrito. Essa stabilisce che lo Stato origina dagli individui e dai loro bisogni. In pratica, spinti da un crescente bisogno di cibo, i singoli individui, ma soprattutto i capiclan, si danno un gran da fare per procurarsi ciò di cui avvertono la necessità e, a tale scopo, provano tutte le strade possibili, pacifiche o violente che siano. Scambi di doni, esogamia, rapporti di buon vicinato, scorribande, razzie, genocidi e tutto ciò che può in qualche modo procurare cibo, sicurezza e spazio viene tentato. Alla fine, da questo incessante sforzo dell’uomo di soddisfare sempre meglio i propri bisogni, soprattutto nelle regioni più popolose, nascerà l’esigenza di ampliare la comunità, dividere il lavoro e creare lo Stato. La causa scatenante è la condizione di guerra permanente dalla quale non si vede altra uscita che scegliere un capo e sottomettersi alla sua volontà. Ebbene, “Secondo la teoria del conflitto gli stati sorgono come conseguenza di scontri tra individui e gruppi di individui o tra società” (RUSH 1994: 37) condotti allo scopo di affrontare con maggior successo le lotte per la vita.
Se gli uomini non avessero bisogni e se non dovessero ricorrere a mezzi anche violenti per soddisfarli, certo non avrebbero creato lo Stato. “Se gli uomini fossero angeli – osserva Hamilton – non occorrerebbe alcun governo” (1997: 458). In definitiva, lo Stato è prodotto dall’azione congiunta di singoli individui, singole famiglie e singoli clan, che sono mossi dal bisogno di sopravvivenza, dalla necessità di reperire cibo e spazi, e dal desiderio di sicurezza e di pace, in altri termini, dal desiderio di vivere meglio possibile. Ma tutto questo non è sfuggito ad Aristotele. È vero infatti che, per certi versi, egli sembra anteporre lo Stato all’individuo, ma lo fa solo nel senso di indicare lo Stato fra i bisogni fondamentali dell’individuo, un po’ come avviene per la vita: così come, in assenza della vita non può sussistere alcun individuo, allo stesso modo, senza Stato non c’è futuro per i cittadini. Aristotele parte dall’assunto che l’uomo tende per natura alla propria felicità ed è lo Stato che lo può rendere felice. Lo Stato, infatti, “esiste per rendere possibile una vita felice” (Pol. I, 1252b). E, in effetti, nei confronti della famiglia o del clan, lo Stato garantisce all’individuo migliori condizioni di sicurezza e di autosufficienza (Pol. II, 1261b). Per Aristotele, lo Stato non corrisponde né ad un territorio, né ad un popolo, né ad una costituzione, né ad una cultura ma, più semplicemente, “è comunanza di famiglie e di stirpi nel viver bene” (III 9, 1280b). Insomma, lo Stato nasce perché consente alla gente la migliore qualità di vita possibile, perché il “fine dello stato è il vivere bene” (III 9, 1281a). È dunque chiara allo Stagirita la funzione strumentale dello Stato e la consapevolezza che il vero protagonista è l’individuo.
La teoria del conflitto gode del supporto della cosiddetta sociologia dell’azione, il cui “principio fondamentale è che qualsiasi fenomeno sociale è sempre il risultato di azioni, di atteggiamenti, di credenze e in genere di comportamenti individuali” (BOUDON 1991: 460). Inoltre, essa è dall’esperienza empirica, la quale attesta che pressoché tutti gli Stati a noi noti hanno tratto origine da azioni di guerra e si sono conservati finché hanno avuto una forza sufficiente per difendersi da eventuali nemici. È con la forza che i popoli si sono appropriati delle risorse altrui e si sono insediati sulle terre che prima erano di altri, ed è dalla capacità del capo di esercitare un controllo armato sul territorio, da cui dipende la sussistenza e la stabilità dello Stato stesso.
In ultima analisi, dovrebbe essere ormai chiaro che la teoria del conflitto è l’unica teoria valida sull’origine dello Stato, come dovrebbe essere ormai assodato che lo Stato nasce dalla violenza e sopravvive grazie alla forza delle armi. “Nessun ordinamento sociale esteso – afferma Popitz – riposa sulla premessa della non-violenza. Il potere di uccidere e l’impotenza della vittima sono fondamenti latenti o manifesti di determinazione della struttura della convivenza sociale” (1990: 76). Alla fine, “la forma e l’organizzazione interna degli Stati è per larga parte il prodotto della sedimentazione storica e delle lotte politiche interne ed esterne” (Mény 1991: 21).
Fra i diversi modi in cui la teoria del conflitto è stata interpretata, voglio ricordare la teoria di Engels, la quale vede nello Stato lo strumento di cui la classe dominante si serve per tenere sottomessa e sfruttare la popolazione più debole, ma soprattutto la teoria del contratto, secondo la quale lo stato “è il prodotto del bisogno individuale di protezione dagli inevitabili conflitti che si verificano nella società” (RUSH 1994: 37). La differenza fra le due teorie non è comunque rilevante. Infatti, il «contratto» pone l’enfasi sul bisogno di sicurezza che spingerebbe i capiclan ad uscire dallo stato di guerra permanente in cui versano ed eleggere un capo comune. Engels invece punta la sua attenzione al dopo-contratto e fa notare che, una volta che i capiclan abbiano scelto il loro capo, questi farà sì la sua posizione di comando rimanga stabile. In ultima analisi, i fatti sarebbero potuti svolgersi nelle seguenti due fasi: 1) nasce lo Stato a seguito di interminabili lotte fra clan con l’elezione di un capo; 2) il capo pone se stesso al di sopra di tutto e di tutti e impone la sua volontà.
È possibile anche immaginare un «contratto» come esito di una progressiva integrazione dei gruppi sociali, che potrebbe essere avvenuta in maniera spontanea o come un preciso atto di volontà di un Consiglio di capiclan, per esempio, in un momento in cui molti clan vengano a trovarsi di fronte ad una situazione problematica che può essere superata solo con un’adeguata cooperazione e organizzazione, come la necessità di amministrare un surplus, o di realizzare un sistema di irrigazione, o di avviare un sistema di scambio commerciale o un sistema di produzione artigianale, e via dicendo. Sotto questo aspetto, lo Stato diventa lo strumento di cui si serve una moltitudine di clan per vivere come se fossero un’unica entità politica. È la concezione di Locke. Per distinguerla dalle precedenti, la chiameremo teoria moderata del contratto.
Ora, anche ammettendo che lo Stato abbia potuto costituirsi per via spontanea e pacifica, sarebbe bastato che, fra dieci Stati, solo uno si fosse armato per indurre gli altri ad armarsi, quanto meno a scopo difensivo. Ma, una volta che tutti gli Stati si fossero armati, sarebbe inevitabile che il più forte fra essi vorrebbe imporre la sua legge e che ciascuno Stato avrebbe interesse ad essere almeno tanto forte da poter salvaguardare la propria autonomia. Alla fine, i rapporti fra gli Stati risulterebbero inevitabilmente soggetti al supremo principio di forza. E la stessa cosa avverrebbe nei rapporti fra i diversi clan di uno stesso Stato. Alla fine, “la vita sociale è sottoposta al controllo di una minoranza organizzata che detiene il monopolio della violenza e che ha esonerato se stessa da ogni lavoro produttivo” (PELLICANI 1998: 787).

2.9. La figura del capo
Se lo Stato potesse fare a meno di un consistente apparato militare, non avvertirebbe l’esigenza di un capo dotato di ampi poteri. È lo stato di guerra permanente, o la sensazione di un incombente rischio di guerra, che induce i capiclan ad eleggere un capo comune. Il capo è colui al quale è delegata la responsabilità di prendere le decisioni più importanti per la comunità e di amministrare la giustizia, e, affinché egli possa assolvere degnamente al suo compito, gli viene riconosciuto il diritto di scegliersi collaboratori, emanare leggi, imporre oneri fiscali e tributi, rendere obbligatorie corvèes e coscrizione, e altro ancora. È lui che decide la guerra e la pace, lui che fissa le regole del diritto, lui che distribuisce le terre conquistate e assegna i ruoli, lui l’effettivo padrone dello Stato, lui il titolare della sovranità. Insomma, la sua volontà è legge.
In pratica, questa figura di capo segna l’inizio dello Stato e della storia. “La storia [...] incomincia nel momento in cui il capo cacciatore paleolitico da primus inter pares si trasforma nel sovrano che, grazie al controllo della forza armata, accentra nella propria persona tutti i poteri. È la forza armata che permette al sovrano di riorganizzare la totalità dell’esistenza dei sudditi, costringendoli a produrre quelle eccedenze di beni indispensabili per mantenere una casta sacerdotale e una burocrazia e per costruire le città, i palazzi e le grandi opere pubbliche” (PELLICANI 1998: 787).

2.10. Sistemi sociali e politici
Una volta prodotto dalla forza, lo Stato deve poter contare su una valida organizzazione se vuole sussistere a lungo e sarà tanto più longevo quanto superiori saranno la sua organizzazione e la sua capacità di soddisfare i bisogni degli individui, rispetto a clan e tribù. È in virtù di questa organizzazione che possiamo parlare di «sistema». Lo Stato è un sistema, o meglio un insieme di sistemi sociali e politici coordinati e interdipendenti.
Per «Sistema sociale» si intende un’interazione fra almeno due attori, che possono essere due individui, due famiglie, due gruppi, due Stati (Münch 1998: 13). Il Sistema sociale si articola su tre differenti livelli: a) la comunicazione fra gli attori; b) il confronto fra due o più sistemi psichici (due individualità); c) uno studio delle relazioni diadiche a livello sovraindividuale e sociale (Münch 1998: 16-8). Si parla, invece, di «Sistema politico» quando i rapporti fra gli attori sono regolati da norme condivise (Münch 1998: 14).
Il sistema politico implica l’esistenza di individui che, essendo dotati di bisogni e interessi oltre che della volontà di soddisfarli in un contesto sociale più o meno ordinato, si organizzano in gruppi in modo che le loro rivendicazioni abbiano una qualche concreta probabilità di giungere a buon fine. Non tutti però hanno successo. Il fatto è che “Ogni rivendicazione deve avere un qualche sostegno per potersi fare strada sino a quella parte del sistema sulla quale occorre agire” (Easton 1998: 11), ed è più probabile che giungano a destinazione le rivendicazioni dei gruppi più potenti. Di norma, il popolo è escluso e, infatti, “storicamente, nella maggior parte dei sistemi la partecipazione popolare nel processo di formulazione delle rivendicazioni ha costituito l’eccezione piuttosto che la regola” (Easton 1998: 11).
Ora, la scienza politica si propone di studiare le dinamiche attraverso le quali i diversi gruppi sociali elaborano le proprie rivendicazioni e inducono lo Stato ad accettarle. Quel che, secondo David Easton, “distingue il sistema politico da altri tipi di sistema è il fatto che attraverso le sue operazioni esso porta a decisioni accettate il più delle volte come vincolanti dalla maggioranza dei membri di una società o di una collettività” (1998: 7). La scienza politica diventa allora “lo studio della formazione e dell’attuazione di decisioni o scelte politiche che nella maggior parte dei casi vengono considerate vincolanti (legittime) dalla maggior parte dei membri di una società” (Easton 1998: 7-8).
In definitiva, un sistema politico è un sistema sociale ordinato secondo regole condivise e costituito da un insieme di gruppi, che si sono organizzati allo scopo di affermare o tutelare una propria sfera d’interessi. Nella competizione i gruppi più potenti e meglio organizzati hanno maggiori probabilità di portare a buon fine le loro rivendicazioni e d’imporle all’intera popolazione. Non necessariamente, anzi quasi mai, il gruppo che si rivela capace d’imporre i propri interessi articolari è anche maggioritario, né gli interessi di cui esso è portatore sono condivisi da tutti i membri dello stesso gruppo. In pratica, gli interessi variano da un individuo all’altro e gli interessi di un individuo non sono mai rappresentati dal gruppo al 100%. Un individuo sceglie di aderire ad un gruppo organizzato perché si sente da esso rappresentato nei propri interessi, se non al 100%, almeno in una qualche misura ritenuta soddisfacente o, comunque, meglio di quanto facciano altri gruppi.
È tuttavia innegabile che, all’interno di uno stesso gruppo, che, giova ripetere, è minoritario rispetto alla totalità della popolazione, i singoli hanno differenti interessi da perseguire e, alla fine, i sub-gruppi e perfino le singole individualità più potenti la fanno da padroni. Avviene così che minuscole minoranze impongano i propri interessi sull’intero gruppo d’appartenenza, ottenendone il consenso generale. Ogni gruppo, poi, ha bisogno del riconoscimento degli altri gruppi sociali, senza il quale troverebbe grosse difficoltà a perseguire i propri interessi, ma per avere il quale deve, a sua volta, essere disposto a fare altrettanto. A livello generale, il riconoscimento reciproco dei gruppi non può che tradursi in un appoggio condizionato di quel particolare sistema politico, che, in ultima analisi, è tenuto in piedi per due principali ragioni: prima, favorire gli interessi di sub-gruppi e delle individualità più potenti del paese; seconda, creare condizioni di ordine e sicurezza per tutti i cittadini.
A seconda dei sub-gruppi e delle individualità che riescono a prevalere prenderà origine un particolare sistema politico. Qui di seguito, descriveremo le principali forme di governo che si sono affermate nel corso dei secoli a seconda dei particolari sistemi politici.

2.11. Lo Stato è una persona?
Nonostante gli uomini abbiano avuto chiara la consapevolezza che lo Stato è una realtà sempre composita e duale, tuttavia hanno spesso elaborato una teoria tesa a dipingerlo come se fosse un’entità monolitica e personale, dotata di una sola volontà. Secondo Jean Bodin, ad esempio, una volta istituito, lo Stato inizia un’esistenza dal decorso variabile che, a somiglianza con le persone umane, prevede una crescita, una maturità, una decadenza e una fine e che è determinata dalla volontà di Dio e da quelle degli uomini (1988: 395), ma anche dal movimento degli astri e dalla forza occulta dei numeri (1988: 399-447).
È la cosiddetta «teoria organica», che raffigura lo Stato come una sorta di super persona, che, in quanto costituita dalla totalità dei suoi membri, perciò stesso è da ritenere superiore a qualsiasi soggetto umano individuale. Di qui l’obbligo di ogni persona umana di sottomettersi alla persona dello Stato e di sacrificare per esso perfino la propria vita.
Se non ci fosse la «super persona» dello Stato e se tutti i soggetti umani di una comunità fossero di pari livello, perché mai “l’individuo dovrebbe sacrificare se stesso per il benessere di altri che sono a lui eguali?” (KELSEN 1994: 190). In questa raffigurazione personale dello Stato Kelsen vede “un’evidente finzione politica”, che ha lo scopo di “assicurare il valore dell’istituto dello Stato come tale […]; di confermare l’autorità degli organi dello Stato e di accrescere la obbedienza dei cittadini” (KELSEN 1994: 190). Insomma, lo Stato non è una «persona», se non per finzione, ossia per una pura esigenza politica.

2.12. Il ruolo della burocrazia
Non c’è Stato senza burocrazia. La burocrazia è il simbolo dell’ordine sociale, senza del quale lo stesso Stato non potrebbe sussistere e regnerebbe il caos. È vero, l’ordine sociale è garantito dalla burocrazia, ma è anche vero che questo ordine è gradito prevalentemente alle classi dominanti del paese. Il legame tra burocrazia e potere sembra ormai assodato. La burocrazia, infatti, “nasce anche dal potere, dal dominio di uno o di alcuni sopra i molti, dove quel dominio richiede degli agenti, interpreti fedeli della volontà del sovrano, che eseguano gli ordini, che traducano in realtà le aspirazioni” (ALBROW 1991: 591). Alla fine però, l’ordine sociale viene visto come un valore positivo per tutti: meglio una burocrazia partigiana che l’incertezza del caos.

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