giovedì 20 agosto 2009

7. Lo Stato duale

I diversi tipi di governo che sono stati realizzati dall’uomo nel corso dei tempi (imperi, monarchie, signorie, principati, oligarchie, repubbliche aristocratiche e censitarie, federazioni, confederazioni e perfino le moderne DR) sono accomunati da due fattori che possiamo considerare caratteristici di tutte le forme di governo note. Il primo fattore consiste nel fatto che vengono riconosciuti come importanti protagonisti della politica solo le comunità (la famiglia, la banda, il clan, la tribù, la corporazione, l’azienda, la classe, l’istituzione, la città, il popolo, lo Stato), e non il soggetto individuale o il singolo cittadino, con la conseguenza che la ragion di Stato prevale sulla ragione della persona, il gruppo prevale sui soggetti umani in carne ed ossa.
Alla base dello Stato duale c’è l’idea che il cittadino sia secondario al gruppo e alle istituzioni. A partire da Aristotele, quest’idea è stata ripetuta incessantemente da molti studiosi nel corso dei secoli e continua ad avere un’enorme fortuna e un grandissimo seguito. La concezione aristotelica, secondo la quale “lo Stato esiste per natura ed è anteriore a ciascun individuo” (Pol. I, 1253a) è stata fatta propria da una certa tradizione cristiana e da tutte le cosiddette teorie olistiche dello Stato, che vanno dall’idealismo hegeliano al materialismo marxiano, dallo spiritualismo al nazionalismo, dal funzionalismo allo strutturalismo, dal collettivismo al positivismo, dall’organicismo all’istituzionalismo. Da queste correnti di pensiero l’individuo non viene visto come essere compiuto ed autonomo, bensì come soggetto collettivo, e il bene personale viene concepito come un semplice riflesso del bene generale.
Il secondo fattore che caratterizza lo Stato è in parte una conseguenza del primo: consiste nel riconoscimento di una proprietà privata di tipo familiare, trasmissibile cioè di padre in figlio, e indipendente dal lavoro. Il risultato è che tutte le forme di governo disegnano società che chiamerò duali, perché vi possiamo facilmente distinguibili una minoranza dominante e una maggioranza dominata. Grazie al diritto patrimoniale di famiglia, può avvenire che un instancabile lavoratore sia povero e un fannullone ricco. In passato la politica patrimoniale ha sempre costituito una rilevante fonte di potere per i capiclan. Ora, i capiclan più potenti, che hanno avuto la fortuna di conservare o di accrescere il proprio patrimonio per un certo numero di generazioni, non di rado hanno ceduto alla tentazione di alimentare una cultura autocelebrativa e favorire la costruzione di genealogie, tradizioni, miti e racconti, allo scopo di avvalorare la superiorità della propria stirpe e la legittimità della propria posizione di dominio per diritto di nascita.
Nello Stato duale le condizioni sociali delle persone sono subordinate a quelle delle rispettive famiglie, talché si creano due ben distinte classi sociali. Per dirla con le parole di Bookchin, “la classe dominante è uno strato sociale privilegiato che possiede o controlla i mezzi di produzione e sfrutta una più ampia massa di persone, la classe dominata, che fa funzionare queste forze produttive” (BOOKCHIN 1995: 26).
Così, a poco a poco, quella che nelle società pre-statali era una semplice posizione di forza, nello Stato si trasforma in diritto, il diritto di stabilire chi nasce per comandare e chi per servire. Ciò è avvenuto nella società faraonica (il figlio del faraone è destinato a succedere al padre), presso gli antichi ebrei (il figlio del sacerdote sarà sacerdote), i greci (la donna e il meteco non possono occuparsi di politica), i romani (il figlio del patrizio e del plebeo nascono in condizioni e con prospettive di vita radicalmente diverse), le società schiaviste (il figlio della schiavo nasce schiavo), il mondo feudale (il figlio del vassallo è vassallo, il figlio del servo della gleba servo della gleba) e gli Stati monarchici moderni (il figlio del nobile è nobile).
Alla fine, lo Stato duale può essere concepito come una “macchina di dominio controllata da una minoranza organizzata, pronta a usare la violenza per piegare alla sua volontà la massa non organizzata” (PELLICANI 1998: 786). E poiché questo cliché è osservabile praticamente in tutti gli Stati, qualcuno ha ritenuto di doverlo considerare un fatto «normale», una sorta di legge di natura che bisogna accettare senza tante storie. Così la pensa, per esempio, Althusius, il quale vede nel governo dello Stato un organo naturale, che non necessita di alcuna legittimazione: volerlo legittimare sarebbe come concepire un corpo senza testa. Secondo il pensatore tedesco, un’eventuale uguaglianza fra tutti i cittadini non solo aprirebbe le porte all’anarchia, ma sarebbe anche contro natura. Coerentemente con tale concezione, Althusius può affermare che “l’eterna legge comune consiste nel fatto che in qualsiasi specie di associazione alcuni sono governanti o superiori, altri sudditi o inferiori” (Politica I,11) (tratto da DUSO 1999: 62).
Anche se partono da presupposti diversi, quasi tutti i pensatori politici (ad eccezione degli anarchici e dei democratici diretti, che sono una risibile minoranza) sono arrivati alle stesse conclusioni di Althusius e, infatti, ancora oggi non riusciamo a concepire una formula politica migliore della DR.

7.1. Lo Stato duale come fatto «normale»
Lo Stato duale ha dominato l’intero arco della storia. “In ogni civiltà vi è una minoranza di spiriti nei quali si incarnano, più o meno pienamente, i valori propri di quella civiltà, e una massa inerte, che segue i suoi istinti, sensibile soltanto alle influenze collettive, che non riflette su nulla, o soltanto su qualche obiettivo personale immediato, e, a dire il vero, manifesta assai poco, o per nulla affatto, la personalità umana” (LECLERCQ 1965: 109).
Lo Stato duale è così diffuso che si tende ormai a concepirlo come un fatto del tutto naturale e normale. “Si sa – scrive J.S. Mill (1997a: 98) – che in ogni nazione si incontra una maggioranza di poveri e una minoranza di ricchi”, ossia una maggioranza di subordinati e una minoranza che detiene il potere. Questo fenomeno è davvero naturale? Noi abbiamo visto che così non è e sappiamo che la società duale si è affermata proprio con lo Stato circa 5 Kyr fa e che, fino a quel momento e per decine di Kyr, l’uomo è vissuto in società egalitarie di tipo tribale. Sappiamo anche che lo Stato ha avuto origine da azioni di forza, che il condottiero vittorioso ha diviso il bottino di guerra fra i capi tribù che lo hanno sostenuto (dando così origine all’istituto della proprietà privata), e ha imposto la sua legge sull’intera popolazione.

7.2. Dominanti e dominati
Non avendo alcuna preoccupazione per la soddisfazione dei propri bisogni primari, i governanti possono dedicarsi unicamente alla conservazione e all’incremento del proprio potere politico, da cui traggono non solo ricchezza, ma anche gloria e ogni genere di vantaggi.
I governati, dal canto loro, essendo esclusi dal potere politico, hanno altro a cui pensare. I più indigenti hanno il loro da fare per sbarcare il lunario alla meno peggio. Alcuni di essi, spogliati di ogni dignità, sono costretti ad elemosinare un lavoro e accettare qualunque condizione, pur di rimediare il minimo per la sussistenza. Altri non trovano di meglio che chiedere la carità. Privati di libertà e defraudati del naturale sentimento di orgoglio, di cui ciascun uomo libero è dotato, costoro sono alla mercé dei potenti, ai quali sono disposti a concedere tutto in cambio di un tozzo di pane o di qualche piccolo favore, o ripiegano verso occupazioni illecite o degradanti (criminalità, traffico di droga, prostituzione), oppure si accalcano intorno ai potenti e competono per occupare i posti offerti dalla pubblica amministrazione (istruzione, sanità, poste, esercito, trasporti, ecc.). Pochissimi sono coloro che intraprendono iniziative a titolo personale e indicano nuove vie. Sono i cosiddetti creativi: i più si bruciano cammin facendo, e solo pochissimi finiscono nel novero dei grandi uomini, di coloro cioè che, nel bene e nel male, fanno la storia.

7.3. La logica di gruppo
Nello Stato duale, i bisogni individuali vengono posti in secondo piano rispetto alla logica del gruppo. Potrà essere la famiglia o l’azienda, il partito o la chiesa, la patria o il re, in ogni caso c’è qualcosa di superiore di fronte alla quale l’individuo è chiamato a sacrificarsi. L’unica cosa che conta è il gruppo organizzato, il «carro». Un individuo che sia fuori da un carro è praticamente privo di potere e di valore. L’ingresso nel carro è sottoposto a regole precise ed ha un costo, che il povero non può pagare. Chi possiede i requisiti necessari ed è disposto a pagare il prezzo richiesto, può certamente salire sul carro, ma nel prezzo è anche previsto che ogni singolo membro deve piegarsi al supremo interesse del carro. Sì, è proprio così: anche il carro ha i suoi interessi, che in genere corrispondono agli interessi di quei pochissimi che sono alla guida del carro stesso. Così, al posto dei valori individuali si vanno affermando quelli del conformismo, dell’appiattimento e della massificazione, che valgono per tutti i membri del carro, ad eccezione dei conducenti, che peraltro sono le uniche persone relativamente libere.

7.4. Lo scontento delle masse e la nascita del diritto
Le società duali hanno dei punti deboli, che ne insidiano la stabilità intrinseca. Essi consistono nei conflitti interni ed esterni che inevitabilmente si sviluppano, non solo a causa dello scontento dei poveri e degli emarginati, che reclamano più diritti, ma anche a causa della competizione che spesso si accende nella cerchia delle famiglie aristocratiche per la conquista di nuove fette di potere o del potere supremo e, infine, a causa della competizione fra Stati. Il rischio è, da un lato, la destabilizzazione sociale, il disordine, il caos e l’incapacità di fronteggiare in modo adeguato un eventuale attacco esterno, dall’altro lato, la guerra. Di qui la necessità di un diritto, che regoli i rapporti fra le parti sociali, e di un apparato militare a scopo difensivo-offensivo.
Talvolta l’esasperazione di masse popolari emarginate e oppresse “è esplosa in devastanti rivolte che hanno scosso dalle fondamenta il sistema di dominio al quale erano assoggettate. Del resto, l’unica arma a disposizione delle vittime della violenza di Stato era la violenza contro lo Stato. La quale, per altro, solo raramente è stata in grado di spezzare lo spietato meccanismo di sfruttamento creato dalle élites del potere” (PELLICANI 1998: 789). Il più delle volte il popolo si è dovuto accontentare di concessioni temporanee, ma in qualche caso è riuscito a sostituire la vecchia classe dirigente con un’altra. Questo è quanto è accaduto, per esempio, nell’Inghilterra del XVII secolo, dove i sudditi riuscirono ad ottenere “il primo governo parlamentare della storia sulla base dell’esplicito riconoscimento che l’esercizio del potere di coercizione dello Stato doveva essere regolato da leggi scritte, e che queste dovevano contemplare la tutela della vita, della persona e della proprietà dei governati” (PELLICANI 1998: 789). Per la prima volta, anche il re era soggetto alla legge, mentre le leggi erano soggette alla costituzione, la quale, a sua volta, era legata alla volontà del popolo.
Nasceva così il cosiddetto Stato di diritto, che determinava un nuovo equilibrio tra le classi sociali, diverso, certo, da quello che aveva caratterizzato le monarchie assolute, ma legato ancora alla logica del gruppo. Nello Stato di diritto una fetta del potere del re passava nelle mani della nobiltà e dell’aristocrazia economica, ma il popolo rimaneva comunque escluso dal potere e la società rimaneva comunque duale. Mai il popolo è riuscito ad abbattere la società duale e a sostituirla con una vera democrazia.

7.5. Anche i paesi «democratici» sono duali
Nonostante ci si aspetterebbe il contrario, lo Stato duale è osservabile anche nei sistemi cosiddetti democratici, che pure riconoscono il principio dell’eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge e il suffragio universale. Infatti, benché a tutti i cittadini sia riconosciuta la facoltà di scegliere, da una lista di candidati e attraverso un voto segreto, chi dovrà governarli, il tipo di governo che ne risulta non è sostanzialmente dissimile da quello delle repubbliche aristocratiche o censitarie. Infatti, se si tien conto che l’accesso alle liste è in pratica accessibile solo ai membri delle classi più ricche, che la scelta dei candidati spetta al partito, quindi viene decisa dall’alto, che agli elettori non è consentita la partecipazione diretta alla politica, ne consegue che la società rimane divisa in cittadini di serie A, abilitati a governare, e cittadini di serie B, ai quali l’azione politica è interdetta. Così, anche nei governi costituzionali “si riscontra il medesimo fatto: la piccola classe dei governanti che comanda a quella vastissima dei governati” (RENSI 1995: 27).
La netta distinzione fra governanti e governati fa sì che lo Stato corrisponde di fatto ai governati e la ragion di Stato alla ragione dei governanti. Lo Stato diventa, insomma, il paravento dietro cui si nascondono i governanti, e quando si sostiene che lo Stato costituisce il valore supremo e la ragion di Stato è superiore alla ragione dei singoli cittadini, in realtà si afferma che i singoli cittadini devono sottomettersi ai governanti e, in caso di bisogno, sacrificarsi per essi.
Oggi gli Stati, ovvero i governanti, sono i principali protagonisti della politica. È come se il pianeta fosse abitato non già da miliardi di individui che interagiscono, bensì di poche migliaia di organizzazioni politiche e qualche centinaio di Stati, che si rapportano fra loro come se fossero soggetti personali e costituiscono i soli soggetti politici che contano, che fanno le leggi, che amministrano la giustizia, che decidono cosa fare, come e quando, che fissano le regole del mercato, che impongono i valori etici e i canoni della moda, che gestiscono la politica internazionale, che dichiarano la guerra e fanno la pace. Dire «Bush dichiara guerra a Saddam» è la stessa cosa che dire «gli americani dichiarano guerra agli iracheni». Questa è la realtà DR. Il popolo americano e quello iracheno spariscono dietro la figura del presidente eletto e su tutti gli interessi individuali prevale il presunto supremo interesse della nazione, in nome del quale si mandano i cittadini a morire e si spendono miliardi di dollari, il che dimostra che, in fondo, DR e autocrazie sono più simili di quanto si possa immaginare. Sono entrambe società duali.

7.6. La società duale nel pensiero di Veblen
L’immagine della società duale emerge chiara in un libro di Thornstein Veblen, un economista e sociologo americano, il quale vi affronta la questione di una minoranza, la cosiddetta classe agiata, che esercita il potere in pressoché tutte le società note. Correttamente, Veblen osserva che questa classe “è emersa gradualmente durante il trapasso dal primitivo stato selvaggio alla barbarie; o più precisamente, durante il trapasso da un’abitudine di vita pacifica a un’altra costantemente bellicosa” (VEBLEN 1999: 10), vale a dire agli inizi del Neolitico, quando gli uomini cominciavano a competere e a combattersi. Questi nostri antichi antenati erano ancora molto incivili e i loro rapporti erano regolati principalmente dal principio di forza, avendo in vista obiettivi immediati. “Le due caratteristiche barbariche, la ferocia e l’astuzia, contribuiscono a formare il temperamento e l’atteggiamento spirituale di rapina. Esse sono l’espressione di un abito mentale strettamente egoistico. Entrambe sono altamente utili al vantaggio individuale in una vita che mira al successo antagonistico” (ivi p. 211).
È in questo contesto che si afferma la figura del guerriero, il quale altro non è che il naturale discendente del cacciatore. Entrambe le figure, quella del guerriero e del cacciatore, sono accomunate dalla medesima natura predatoria: “il guerriero e il cacciatore raccolgono dove non hanno seminato” (ivi p. 15). Col diffondersi delle guerre, la forza viene elevata a valore supremo, mentre il lavoro finisce per assumere “un carattere detestabile in virtù della indegnità che gli viene attribuita” (ivi p. 17). È questa che Veblen chiama “fase predatoria della civiltà”, che si ha “quando il combattimento è diventato la nota dominante nella concezione comune della vita; quando l’apprezzamento di uomini e cose da parte del senso comune è arrivato ad essere un apprezzamento dal punto di vista della lotta” (ivi p. 19). Ed è a questo punto che nasce l’idea di proprietà privata: quello che ho conquistato con la forza mi appartiene e con la forza lo difendo. “La proprietà ebbe origine come bottino considerato quale trofeo della razzia fortunata” (ivi p. 24). Un manipolo di guerrieri che, rischiando la vita, riescono a depredare i beni di una divinità straniera, ritornati fra la loro gente con le mani sporche di sangue, ma cariche di bottino, vengono accolti come eroi. Col tempo essi proveranno ad impegnarsi ad impossessarsi di un territorio nemico e se lo spartiranno divenendone proprietari. In ogni caso, l’azione violenta del guerriero raramente è finalizzata al procacciamento del necessario per la sussistenza: per lo più è sostenuta da una sete di gloria. Sì, la proprietà è legata al desiderio di gloria e il “possesso della ricchezza conferisce onore” (ivi p. 24). È così che si affermerebbe la “classe agiata”.
Al guerriero e al cacciatore sono richieste doti non solo di intelligenza e di vigore fisico, ma anche di elevata aggressività, determinazione e mancanza di scrupoli, doti che, secondo lo studioso americano, ritroviamo negli imprenditori e negli uomini di affari moderni. “Il finanziere ideale è simile al delinquente ideale in quanto volge senza scrupoli persone e cose a suoi fini, e trascura spregiudicatamente i sentimenti e i desideri degli altri nonché gli effetti più remoti delle sue azioni” (ivi p. 183). La novità, rispetto al passato, è che, apparentemente, si usa il diritto al posto della forza, ma la sostanza rimane invariata.
Adesso “la proprietà accumulata sostituisce sempre più i trofei delle gesta predatorie” (ivi p. 26) e si va affermando una nuova mentalità centrata sull’acquisizione di ricchezza con ogni mezzo. “Diventa indispensabile accumulare, acquistare proprietà, per conservare il proprio buon nome […]. Il possesso della ricchezza, che all’inizio era considerato semplicemente prova di capacità, nell’opinione popolare diventa esso stesso un atto meritorio. La ricchezza è ora essa stessa intrinsecamente onorevole e conferisce onore a chi la possiede” (ivi p. 27). Ma il possesso di ricchezza non è sufficiente per acquisire potere. “Per cattivarsi e conservare la stima degli uomini non basta possedere semplicemente ricchezza o potenza. Ricchezza e potenza devono essere messe in evidenza, poiché la stima è concessa solo di fronte all’evidenza” (ivi p. 32). Solo la ricchezza ostentata genera la gerarchia sociale. “La norma universale dello schema di vita della comunità di rapina è il rapporto fra superiore e inferiore, nobile e plebeo, persone e classi dominanti e subordinate, padrone e schiavo” (ivi p. 231).
Inizialmente la ricchezza appartiene al condottiero che l’ha conquistata e che mostra di essere in grado di difenderla, il quale, di norma, viene proclamato re e signore di ciò che ha conquistato. Le sue virtù sono cantate dai poeti e la sua fama viene diffusa in ogni dove. Egli acquista uno status straordinario e tutta la sua stirpe viene elevata alla sfera divina. Il suo regno gli appartiene ed egli lo può trasmettere ai suoi figli. “Con un ulteriore raffinamento, la ricchezza acquistata passivamente per eredità dagli avi o da altri progenitori diventa adesso persino più onorifica che la ricchezza acquistata dal possessore con sforzi” (ivi p. 27) e diventa motivo di nobiltà.
Il nobile deve possedere non solo ricchezze inanimate, ma anche schiavi, i quali sono impiegati in parte in lavori produttivi, in parte nella cura del corpo del proprio padrone e della sua casa, ma anche per creare una certa immagine di grandiosità, attraverso la musica, la letteratura, l’arte, e così via. “Il possesso e il mantenimento di schiavi impiegati nella produzione di beni stanno a dimostrare ricchezza e coraggio, ma il mantenimento di servi che non producono nulla dimostrano una ricchezza e una posizione ancora più alta” (ivi p. 52). Il ricco è colui che vive nell’agiatezza senza la necessità di lavorare e che, a poco a poco, riesce ad imporre i suoi valori. Nelle società evolute, infatti, conta principalmente ciò che non è legato alla soddisfazione dei bisogni primari e alla sussistenza, ma che, anzi, si distingue nettamente da questa «bassa» necessità, come la musica, la letteratura, l’arte, lo sport, la moda, e anche la guerra, tutte attività che ineriscono alla sfera nobiliare.

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