Con l’affermazione dello Stato si apre l’era delle istituzioni. Lo Stato è un’istituzione composta da istituzioni. In questa sede ne prenderemo in considerazione due fra le principali, ovverosia il popolo e il cittadino.
6.1. Il popolo
Non c’è Stato senza popolo, ma ciò non vuol dire che ci sia una sola idea di popolo. Gli antichi greci chiamano demos gli uomini liberi di una polis, non si sa se nella loro totalità o con particolare riferimento alle classi più povere. Presso i Romani, bisogna distinguere: nel periodo monarchico, il termine populus indica la massa dei cittadini in grado di comprasi un’armatura e combattere nella fanteria pesante; nel periodo repubblicano, il populus è diviso in patrizi e plebei per divenire, verso la fine della repubblica, quasi sinonimo di plebe, distinto tanto dalla classe nobiliare quanto dai membri dei paesi conquistati; dopo l’editto di Caracalla (212), che concede la cittadinanza a tutti i sudditi liberi dell’impero, populus sono tutti i cittadini in contrapposizione coi ceti dominanti e l’aristocrazia. Quest’ultima accezione sarà conservata nell’età medievale e moderna, fino a tutto l’Ottocento: popolo sono le masse di coloro che devono lavorare per vivere e che si contrappongono ad un altro popolo, molto più piccolo, quello dei ceti ricchi e privilegiati. Sono due popoli diversi che convivono all’interno della stessa nazione, due popoli distinti dalla famiglia di origine e dal censo: in Francia li chiamano «Stati».
A partire dalla Rivoluzione francese, il termine popolo è venuto a coincidere con la nazione stessa nella sua totalità, ed è divenuto la fonte della sovranità dello Stato, prendendo il posto che prima era di Dio. In realtà, per molti anni dopo la Rivoluzione, la cosiddetta «sovranità popolare» sarà, di fatto, esercitata dalla borghesia. È solo in seguito alle rivolte del 1848 che si è affermato, oltre alla Repubblica, “il suffragio universale maschile, portando gli elettori francesi da 250.000 a 9.000.000” (FACCHI 1997: 110). Attualmente il termine popolo viene usato nel senso caro a Kelsen, cioè come concetto giuridico legato alla cittadinanza e indicante “l’appartenenza a un unico ordinamento politico e giuridico” (FACCHI 1997: 114). Nel gergo comune esso si riferisce alla totalità dei cittadini di uno Stato, intesi per lo più come i residenti stabili di quello Stato, talvolta con l’esclusione, esplicita o implicita, delle personalità di maggiore spicco che, in quanto élite dominante, fanno parte a sé stante.
6.2. Il cittadino
L’idea di cittadinanza si è sviluppato di pari passo a quella di popolo, con la quale costituisce un tutt’uno. Ma qual è il significato di cittadinanza? “Da sempre ogni gruppo di persone chiuso verso l’esterno tende a distinguere i propri membri da chi non vi appartiene e a tracciare una linea di demarcazione tra chi è dentro e chi è fuori. Se poi il gruppo è anche solo minimamente organizzato, al suo interno vengono stabiliti ruoli e funzioni, diritti e doveri, ma anche privilegi per chi è incluso e discriminazioni per chi è escluso. Ciò vale a maggior ragione per quel gruppo politicamente strutturato che si chiama Stato. È questa la funzione peculiare della cittadinanza: quella di fornire un criterio di inclusione e di esclusione tra chi è cittadino di uno Stato e ha una serie di diritti, e chi non è cittadino e ne viene escluso. La cittadinanza è quindi una condizione (o status) dell’individuo appartenente a uno Stato, alla quale viene attribuito un insieme di diritti e di doveri” (BELVISI 1997: 117). In ultima analisi, la cittadinanza è una sorta di marchio, che indica l’appartenenza di una persona ad uno Stato e s’iscrive in una logica «recinzionista».
Il concetto di c. entra nel mondo contemporaneo con la Rivoluzione francese, anche se affonda le proprie radici nel mondo antico. Nell’antica Grecia, ad esempio, solo il cittadino può essere riconosciuto uomo a pieno titolo e soggetto di diritto. Secondo Aristotele, autentico cittadino è solo colui che partecipa “alle funzioni di giudice e alle cariche” della polis (Pol., 1275a, 22-4); mentre “è alla stregua di un meteco chi non partecipa agli onori” (Pol., 1278a, 39). Ma chi può occuparsi di politica se non colui che dispone di sufficiente tempo libero e che non è costretto a lavorare dalla mattina alla sera per la sussistenza? Di fatto, dunque, è cittadino chi può contare su qualche proprietà e sul lavoro di schiavi. Libero da incombenze lavorative, costui potrà dedicarsi agli affari della polis ed essere considerato vero uomo. Si tratta, come si può ben vedere, di una concezione aristocratica di cittadinanza.
Agli inizi della storia romana, la cittadinanza è un attributo pertinente alle famiglie che discendono dai padri fondatori dell’Urbe (gens), in pratica i patrizi, ed è dunque un titolo nobiliare. Poi, a partire dalla rivoluzione plebea del IV secolo a.C., patrizi e plebei si collocano su un piano di parità e la cittadinanza finisce per divenire un diritto di tutti i paterfamilias della città di Roma. Con la concessione dello status di cittadino a tutti gli uomini adulti dell’impero (editto di Caracalla del 212 d.C.) la cittadinanza si svuota della sua valenza onorifica e si riduce a poco più di una semplice etichetta formale, che designa la massa popolare, distinguendola dall’élite dominante.
Quest’idea di cittadinanza si conserva per tutto l’alto medioevo, ma comincia a cambiare nell’età dei Comuni, allorché si registra una sorta di ritorno al passato. Il cittadino comunale, infatti, è un uomo libero, che si è affrancato dall’ordinamento gerarchico feudale e vive del proprio lavoro all’interno di un contesto urbano. La differenza con il cittadino di Aristotele sta proprio in questo diverso rapporto col lavoro, ma le somiglianze sono notevoli. Per Marsilio da Padova (1324), per esempio, cittadino “è colui che nella comunità civile partecipa secondo il proprio rango al governo o funzione deliberativa o giudiziaria” (1975: I,12,4). Al pari di Aristotele, Marsilio esclude dalla cittadinanza stranieri, servi, donne e minorenni, e conferisce il potere legislativo all’intero corpo dei cittadini (o alla maggioranza di essi). Per entrambi poi il cittadino non è ancora concepito come individuo singolo, libero e autonomo, bensì come membro di una comunità, di un ceto o di una corporazione, e i suoi diritti politici dipendono dall’appartenenza e dal censo.
Questo quadro cambia ancora con l’affermarsi delle monarchie nazionali, dove il cittadino è sostanzialmente un suddito, i cui doveri e la cui subordinazione nei confronti della gerarchia sono “i motivi dominanti, giustificati e sostenuti dalla dottrina religiosa” (BENDIX 1991: 774). Secondo Bodin (1576) “ciò che fa il cittadino è l’obbedienza e la riconoscenza del suddito libero per il suo principe sovrano, e la protezione, la giustizia e la difesa del principe nei riguardi del suddito; ed è questa la vera ed essenziale differenza fra cittadino e straniero” (1964: 304). Contrariamente a quanto affermato da Aristotele e Marsilio, Bodin ritiene non essenziale per lo status di cittadino la partecipazione alla vita politica, mentre condivide la concezione romana, secondo la quale la cittadinanza va riservata al paterfamilias.
La situazione cambia ancora dopo che Hobbes, aprendo le porte all’individualismo moderno, afferma che “essere uomo è il presupposto per ogni ulteriore status, e non viceversa” (BELVISI 1997: 125). Il nuovo orizzonte ideologico, però, non riconosce ancora l’individuo come soggetto di diritti inviolabili e assoluti, e bisogna aspettare Rousseau perché prenda forma l’idea di cittadino-sovrano, che gode della pienezza dei diritti politici ed è chiamato all’autogoverno, alla stessa maniera degli antichi cittadini ateniesi, ma questa volta senza vincoli di dipendenza o identificazione con lo Stato. Con Rousseau i diritti fanno parte integrante dell’individuo, il quale non deve trarli dallo Stato.
Alla vigilia della Rivoluzione francese, la società è suddivisa in tre «stati» ordinati gerarchicamente: i primi due, l’aristocrazia e l’alto clero, costituiscono una piccola minoranza di privilegiati, mentre il «terzo stato», ossia la sterminata massa dei sudditi, devono accontentarsi di minori diritti e devono lavorare per mantenere se stessi e gli altri due «stati» dominanti, ossia la società intera. Occorre notare che questa lucida analisi della società francese di fine Settecento non è opera del «Terzo stato» in generale, ma della parte più benestante e istruita di esso, la cosiddetta borghesia, all’interno della quale si va diffondendo un prepotente desiderio di contare e di avere gli stessi diritti dei primi due «stati». È la borghesia la parte più attiva della Rivoluzione, non le classi sociali più umili, che si muovono al traino e vengono coinvolte solo parzialmente e indirettamente.
Abbattendo il sistema dei «tre stati», la Rivoluzione francese dà origine ad una nuova figura di cittadino, che trae il proprio status non dall’appartenenza ad un ceto, bensì dall’essere membro dello Stato nel suo insieme (il cosiddetto Stato-nazione), e, in quanto tale, può godere di una formale parità di diritti-doveri. Adesso il titolo di cittadino è conferito alla generalità dei sudditi, sia pure con qualche limitazione (donne, minorenni e domestici rimangono esclusi dalla pienezza dei diritti politici). In atteggiamento critico con la Dichiarazione dei diritti del 1789, che esclude la donna, Olympe de Gioges redige, due anni dopo, la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina. Nulla ormai si oppone al riconoscimento dei diritti dell’uomo, come individuo, anche se, generalmente, si tratta solo di un riconoscimento teorico. Di fatto, il nuovo cittadino che emerge dalla Rivoluzione rimane legato ad una cultura di censo: cittadino è l’individuo proprietario.
È solo a partire dalla seconda metà dell’Ottocento che fra gli operai delle fabbriche e i braccianti agricoli comincia a diffondersi l’esigenza di una qualche regolamentazione che renda accettabili le condizioni del lavoro, dal che trarranno linfa vitale le teorie socialiste e i movimenti sindacali. Tende così ad affermarsi il valore della solidarietà sociale, mentre lo Stato comincia a rivolgersi non più e non solo al cittadino proprietario, bensì a tutti i cittadini, che tuttavia non sono concepiti come pure individualità, bensì come membri di comunità di vario ordine e grado (comuni, province, regioni, sindacati, chiese, categorie professionali, e via dicendo), che si sussumono nello Stato.
Il cittadino moderno non ha valore in quanto individuo e, dunque, non è prevista una sua partecipazione diretta alla politica, ma solo una partecipazione mediata dalle istituzioni, fra cui spiccano i partiti. Come singolo, un cittadino può benissimo disinteressarsi degli affari pubblici, senza perdere in dignità, come invece avveniva ai tempi di Aristotele. Si fa fatica a concepire che lo Stato non dovrebbe essere un semplice centro di potere, bensì un servizio per i cittadini. “Se si ritiene che lo Stato sia creato e legittimato dall’insieme dei cittadini – sottolinea opportunamente John Bendix – c’è poco da discutere: il ruolo dello Stato diventa quello di obbedire e di fornire servizi ai cittadini” (1991: 776). Bene, questo principio non è stato ben chiaro agli uomini almeno fino alla metà del XX secolo, e forse in parte non lo è nemmeno oggi.
In questi ultimi decenni, grazie all’affermazione del cyberspazio, della globalizzazione e del cosmopolitismo, si comincia a superare l’idea del cittadino-suddito-irresponsabile e a intravedere una realtà nuova, quella dell’individuo cosmopolita, che non è più strettamente legato ad una comunità nazionale, ma è cittadino del mondo. In questa nuova direzione si muovono molti pensatori contemporanei, come Dahrendorf (1992), Ferrajoli (1994) e Veca (1990), e non è difficile prevedere che questa strada conduca alla DD, anche se siamo ancora solo all’inizio e le resistenze da vincere sono ancora tante.
8. Le teorie sullo Stato
15 anni fa
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