giovedì 20 agosto 2009

8. Le teorie sullo Stato

Sull’idea di Stato si contendono il campo due gruppi di teorie: le teorie olistiche, che giustificano lo Stato duale e autoritario, e le teorie individualistiche, che vorrebbero invece una società egalitaria e democratica.

8.1. Le teorie olistiche dello Stato
Ciò che accomuna le teorie olistiche è l’idea che la singola persona sia inferiore all’istituzione e allo Stato. Vediamone alcune.
Lo spiritualismo poggia sulla concezione di un Dio-Padre perfetto e onnipotente, alla quale fa pendant quella di un uomo-bambino, radicalmente incapace di discernimento morale e di autodeterminazione. L’individuo, dunque, è «secondo» ed ha bisogno di una guida amorevole e paterna. Il vero protagonista è Dio. È Dio che impone la legge, è Dio che sceglie le persone cui affidare funzioni di guida per il suo popolo, è Dio che dà origine allo Stato e destina alcuni al comando altri all’obbedienza, è Dio che si serve degli uomini per realizzare i suoi imperscrutabili progetti. Il singolo individuo non deve far altro che rinunciare a se stesso e farsi docile strumento, abbandonarsi e ubbidire. È in quest’ottica che si sviluppano le concezioni politiche di Tommaso d’Aquino, Rosmini, Gioberti, e di tanti altri spiritualisti, per i quali l’individuo, in quanto creatura, è privo di valore in sé. Acquista, invece, valore la chiesa gerarchica, ossia l’insieme dei pastori, ai quali Dio ha affidato il compito di guidare il suo gregge. È la Chiesa che dà valore all’individuo, e non viceversa, e lo stesso individuo, se esce dalla Chiesa, perde qualcosa.
Alle medesime conclusioni giungono, seppure per vie diverse, i cosiddetti funzionalisti e gli organicisti. A differenza del comportamentismo, che assume ad unità di analisi il comportamento dei singoli individui, il funzionalismo si pone in una prospettiva olistica e considera il tutto superiore alla somma delle singole parti, lo Stato superiore alla somma dei singoli membri che lo compongono. Mentre i comportamentisti rivolgono la loro attenzione alle motivazioni e ai bisogni degli individui, alla loro psicologia, alle loro intenzioni, alla loro coscienza e al loro subconscio; i funzionalisti (come B. Malinowski, R.K. Merton, T. Parsons, D. Easton, e molti altri) privilegiano la ragion di Stato, le esigenze delle istituzioni, gli equilibri del sistema, le esigenze del potere, la forza delle tradizioni, e via dicendo. Per i funzionalisti, la realtà vera risiede nel gruppo, nella società e nello Stato, che sono le uniche entità autonome, mentre il singolo individuo è una semplice parte di un tutto più complesso.
Anche la concezione organicista, che annovera fra i suoi esponenti personaggi come Schlegel, Schelling, Novalis, Muller e Haller, vede lo Stato come un organismo nella sua interezza, mentre i singoli individui sarebbero le cellule e i gruppi gli organi e le membra. Così come il corpo di un essere umano deve essere considerato superiore alle singole cellule e agli organi che lo compongono, allo stesso modo i singoli individui sono inferiori allo Stato. Elevato a dignità di persona, lo Stato si muove e si comporta come se fosse un essere umano (pensa, decide, soffre, esulta, lotta per i propri interessi), mentre il cittadino in carne ed ossa cade nell’ombra e diventa secondario.
Nell’Ottocento, dominato dall’idealismo hegeliano, prevale la tesi del primato dello Stato sull’individuo, si tende a respingere l’idea che lo Stato sia originato da un «contratto» tra persone libere e si afferma il primato assoluto dello Stato. “L’individuo si dissolve nel popolo che si costituisce come un’entità organica e indivisibile; lo spirito del popolo diventa il motore della storia e in suo nome si può prendere ogni decisione” (FACCHI 1997: 112). Secondo Hegel, “è il popolo che riceve identità dallo Stato, non viceversa. Senza lo Stato l’individuo non ha identità e il popolo è una moltitudine informe” (BARBERA 1997: 29). Per conseguenza, i diritti dell’uomo “vengono fatti derivare esclusivamente dalla volontà dello Stato” (BONGIOVANNI 1997: 83). La dottrina dello «Stato etico», sostenuta prevalentemente da Hegel, vede nello Stato un fine anziché un mezzo e afferma che è l’uomo a vivere per lo Stato e non viceversa. Per Hegel lo Stato è un ente originario, antecedente e primario rispetto all’individuo, che ha una sua specifica identità e che progredisce incessantemente verso la perfezione, indipendentemente dalla volontà dei singoli individui.
Lo Stato etico è il fine assoluto, che trascende i singoli individui, i quali non sono fini in se stessi, ma acquistano valore soltanto in quanto inseriti nello Stato (VOLPE 2000: 49). Tale posizione, che si suole fare risalire ad Aristotele, è stata condivisa tanto dell’idealismo quanto del materialismo, come anche dal nazionalsocialismo. In ogni caso l’individuo non viene visto come soggetto in sé, compiuto ed autonomo, bensì come soggetto collettivo e il bene personale viene visto come un semplice riflesso del bene generale. Sul fronte opposto si colloca l’illuminismo kantiano e il liberalismo, per i quali lo Stato è il prodotto della libera volontà dell’individuo, unico soggetto dotato di valore in sé.
Anche per Marx conta solo lo Stato. L’individuo isolato è un’invenzione della teoria utilitaristica: non c’è individuo che non sia stato generato e plasmato da una società.
Secondo Comte e Durkheim, il cui pensiero s’inserisce nella tradizione collettivistica e positivistica, i fatti sociali non sono determinati dalle azioni, dalle motivazioni, dai sentimenti e dalle coscienze individuali, che sono inosservabili e inconoscibili per lo scienziato, bensì dalle leggi sociali, le uniche ad avere valenza oggettiva e a costituire oggetto di ricerca scientifica. La società viene intesa non come un insieme di soggetti personali, bensì come una totalità, autonoma e primaria rispetto all’individuo, che le è subordinato. “È l’individuo a nascere dalla società e non la società dagli individui” (DI NUOSCIO 1996: 318). Ciò che conta è dunque la dimensione sociale e non quella individuale.
I sostenitori dell’istituzionalismo sostengono che il comportamento dell’individuo è determinato dalle norme sociali e dai ruoli istituzionali e che l’attore principale non è l’individuo, ma il gruppo e lo Stato. Tra i più autorevoli sostenitori di questa teoria si possono ricordare T.B. Veblen, S.P. Huntington, J.G. March, J.P. Olsen e H. Kelsen. Per quest’ultimo, lo Stato, in quanto persona giuridica, è ben più importante del singolo individuo. “La volontà delle singole personalità – scrive – liberano una misteriosa volontà collettiva ed una persona collettiva addirittura mistica” (KELSEN 1995: 53). In questo contesto la libertà individuale scompare: “i cittadini dello Stato sono liberi soltanto nel loro insieme, cioè nello Stato, chi è libero non è il singolo cittadino, ma la persona dello Stato” (KELSEN 1995: 54). “Alla libertà dell’individuo viene a sostituirsi, come esigenza fondamentale, la sovranità popolare o, che è lo stesso, lo Stato autonomo, libero” (KELSEN 1995: 55).

8.2. Le teorie egalitarie dello Stato
In epoca pre-statale tutte le società umane erano di tipo egalitario, non nel senso che tutte le persone erano uguali, ma nel senso che nessuno nasceva ricco o povero, potente o sottomesso, libero o schiavo, dominante o dominato. Con l’affermazione delle nazioni e degli Stati la società egalitaria è scomparsa, ma non sono scomparse le idee che l’egalitarismo sia un bene, che le persone sono soggetti di diritti inalienabili e imprescrittibili e che lo Stato non è affatto superiore a questi diritti, ma ha anzi una funzione strumentale nei loro confronti, ed è su queste idee che poggiano tutte le teorie egalitarie dello Stato.
Tra i primi teorici dell’egalitarismo possiamo ricordare i sofisti (si pensi a Protagora), che, per alcuni versi, rappresentano i precursori del pensiero illuminista e giusnaturalista, dal quale prendono origine le costituzioni moderne e le proclamazioni dei diritti dell’uomo e del cittadino.
Nella stessa direzione si muove l’economia classica. Quando Adam Smith afferma, infatti, che ogni uomo è il giudice migliore del suo proprio interesse e che il consumatore è in grado di scegliere, tra le alternative che gli si offrono, quella a lui più conveniente, in realtà sta dichiarando la sua fiducia nelle capacità di discernimento dell’individuo sul piano economico e, perché no?, anche su quello morale.
Anche il comportamentismo politico di Lasswell e Kaplan pone in risalto il ruolo dell’individuo nella sfera decisionale privata e pubblica.
E non va dimenticato il contrattualismo. Alla base della teoria del contratto, infatti, “sta l’idea che non l’individuo è il prodotto della società ma è la società il prodotto dell’individuo” (BOBBIO 1999: 377). Dietro l’idea del «contratto» si può vedere, tuttavia, una concezione negativa dell’individuo e un senso di sfiducia sulle sue capacità di autogovernarsi. È a causa dei suoi limiti intrinseci, infatti, che l’uomo deve delegare i suoi diritti al monarca. “Se gli uomini fossero angeli – osserva Hamilton – non occorrerebbe alcun governo” (Il Federalista, p. 458). È la stessa concezione negativa dell’individuo che sta alla base delle moderne democrazie rappresentative.
Una delle correnti di pensiero in cui trovano particolare accoglienza i diritti dell’individuo è il liberalismo. Abbiamo già avuto modo di osservare che per Locke scopo del governo è quello di tutelare gli interessi dei singoli cittadini. Non dissimile è la posizione di Humboldt e Constant, i quali ritengono che il vero protagonista della civiltà e del progresso sia l’individuo e non lo Stato e auspicano che egli venga protetto da ogni forma di sopraffazione e tutelato nei suoi diritti, primo fra tutti quello della libertà, che deve essere limitata il meno possibile dallo Stato. Anche per Green, è bene tutto ciò che mira a realizzare, nella maggiore misura possibile, le facoltà proprie dell’uomo, e tutto ciò che promuove la persona umana e la rende quello che dovrebbe essere: una creatura simile al suo Dio.
Per i liberali, i protagonisti della storia sono gli individui, non gli Stati. L’ordine del mercato e il sistema giuridico di una popolazione nascono dalle esigenze pratiche degli individui, che si sviluppano nel corso delle loro azioni quotidiane e nelle quali è opportuno che lo Stato interferisca il meno possibile. È la libertà del mercato che darà origine alle istituzioni sociali, e non viceversa. Lo Stato deve limitarsi a garantire il diritto alla sicurezza e alla vita dei cittadini, ma soprattutto deve salvaguardare la loro proprietà privata. “Il fine maggiore e principale del fatto che gli uomini si uniscono in società politiche e si sottopongono ad un governo è la conservazione della loro proprietà” (LOCKE 1998: 124). Uno Stato che imponga alcunché a chicchessia è inammissibile. Nemmeno la maggioranza ha il diritto di imporre la propria volontà ad alcuno. Quindi: massima libertà di mercato in condizioni di pace. Questo potrebbe essere lo slogan del liberalismo classico.
Tra i più ferventi sostenitori dell’individualismo dobbiamo ricordare J.S. Mill, il quale sostiene che la funzione primaria dello Stato sia quella di promuovere i singoli cittadini: “uno Stato che rimpicciolisce i suoi uomini perché possano essere strumenti più docili nelle sue mani, anche se a fini benefici, scoprirà che con dei piccoli uomini non si possono compiere cose veramente grandi” (1997b: 133). Mill diffida dell’egualitarismo democratico e afferma che è bene concedere a tutti uguaglianza di opportunità e poi lasciare che i migliori emergano. I cittadini verranno allora ordinati non solo secondo il loro censo, ma anche secondo le loro abilità manuali e alla loro cultura, dando la preferenza a quest’ultima.
Secondo Mill, la società deve essere governata da rappresentanti eletti a suffragio universale, con poche eccezioni (gli analfabeti, gli assistiti dal comune), e i voti dei cittadini devono avere un peso diverso in proporzione al loro valore. Naturalmente lo Stato peggiore è quello che ostacola la crescita dei cittadini, cioè il dispotismo: “Ovunque il dispotismo della consuetudine si erge a ostacolo del progresso umano, ed è in costante antagonismo con quella disposizione a tendere verso qualcosa che sia migliore dell’abitudine, chiamata a seconda delle circostanze, spirito di libertà o di progresso o di innovazione” (MILL 1997b: 81). Il governo paternalistico è il più dispotico di tutti i governi, perché tratta i cittadini come bambini.
Ai giorni nostri c’è ancora chi parla dell’individualismo in termini positivi. Ha scritto Salvador Giner: “Uno dei compiti più seri che oggi dobbiamo affrontare è quello di creare buoni cittadini, ossia soggetti attivi e responsabili, in luogo di gente indifferente alla causa comune; cittadini che non si scoraggino di fronte alle difficoltà della vita politica democratica e disposti a difendere con fermezza i suoi lati positivi e a riformare quelli negativi” (1998: 98). Da parte sua, A. Giddens indica nell’autonomia e nello sviluppo individuale “l’obiettivo principale” (1999: 125) delle nostre democrazie. Sulla stessa linea si colloca Murray Bookchin, il quale, nel descrivere il suo modello municipalista, afferma la propria fiducia nel cittadino con queste parole: “Ogni cittadino è considerato competente in materia di affari pubblici e addirittura viene incoraggiato ad occuparsene. Viene perciò fornito ogni mezzo atto a favorire una piena partecipazione intesa come processo educativo ed etico che trasforma la latente capacità del cittadino in una realtà effettiva” (1993: 53).
In generale, i principi dell’individualismo sono declamati nelle Repubbliche, nelle Democrazie e in tutti i paesi che si definiscono pluralisti e progressisti. Alle enunciazioni di principio, tuttavia, spesso, non seguono i fatti e l’individualismo rimane lettera morta. All’interno della teoria individualista albergano due principali linee di pensiero: l’una moderata, l’altra radicale. Gli individualisti moderati (come Nozick) vogliono che i poteri dello Stato siano ridotti al minimo e le libertà degli individui ampliate al massimo; mentre gli individualisti estremi (come Stirner) rifiutano lo Stato e sostengono l’anarchia, oppure (come Nock) vedono nello Stato un nemico da abbattere.
Certamente è nell’area anarchica che troviamo la più appassionata difesa dell’individuo e dei suoi diritti. Secondo Godwin, lo Stato è solo uno strumento e l’obiettivo della politica è quello di educare i cittadini alla felicità e all’indipendenza: “Senza indipendenza gli uomini non possono essere né saggi né utili né felici. Di conseguenza la condizione più desiderabile per l’umanità è quella in cui viene mantenuta la sicurezza generale, con la minor violazione possibile dell’indipendenza individuale” (GODWIN 1997: 64-5). Tra i principali fattori che si oppongono all’indipendenza individuale, gli anarchici annoverano la diseguale e iniqua distribuzione della ricchezza e della proprietà privata, che sarebbe supportata dallo Stato. Perché possa sussistere il diritto alla proprietà, dicono gli anarchici, deve esistere anche un principio di esclusione ed è soprattutto a questo secondo che viene orientata la forza dello Stato: essa tutela i proprietari dalle prevedibili rivendicazioni e pretese da parte dei nullatenenti. Ecco perché l’anarchico Errico Malatesta ha definito lo Stato “il gendarme dei proprietari privati”. Se così è, ne consegue che i poveri non hanno avuto parte alcuna, né interesse alcuno nella formazione dello Stato. L’interesse è solo dei ricchi. Per Malatesta, lo Stato corrisponde alla totalità delle istituzioni pubbliche, che si arrogano, usurpandolo al legittimo detentore che è il popolo, il potere di creare le leggi e di imporle a tutti, anche con l’uso della forza.
Ma lo Stato, più che un complesso organico, è “un aggregato di individui” (GODWIN 1997: 102). Il governo ideale dovrebbe essere costituito da piccole comunità organizzate secondo i principi della democrazia partecipativa e in modo federale, ma al consiglio federale si dovrebbe ricorrere il meno possibile e solo in casi eccezionali. Finché ci sarà un governo forte gli individui non saranno autonomi e indipendenti nel giudizio, e finché gli individui non saranno autonomi ci sarà necessità dello Stato: “La società è prodotta dai nostri bisogni, e il governo dalla nostra malvagità” (GODWIN 1997: 103).
Alla fine, Godwin auspica la fine dello Stato e l’autogoverno dei cittadini: “Il governo non può sussistere se non sulla fiducia, come d’altro canto la fiducia non può esistere senza l’ignoranza. I veri sostenitori del governo sono i deboli e i disinformati, non i saggi. Le basi del governo si sgretoleranno quindi di pari passo con il regredire della debolezza e dell’ignoranza. Si tratta tuttavia di un evento che non deve essere considerato con allarmismo. Uno sconvolgimento di questo genere costituirebbe la vera eutanasia del governo” (GODWIN 1997: 104-5).

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