Ora che abbiamo illustrato le origini e il significato dello Stato siamo in grado di cogliere quelli che, a mio giudizio, ne sono i principali elementi costitutivi o fattori (le risorse, la forza, il potere, la legittimazione, il diritto, l’ideologia, la giustizia e la sovranità di Stato), che sono inestricabilmente connessi e interdipendenti e da cui dipendono tutti i vari aspetti dello Stato.
4.1. Le risorse
Per «risorse» intendiamo tutto ciò che può, in qualche modo, soddisfare i bisogni di un individuo ed è disponibile in quantità limitata. Le risorse possono essere di tipo materiale (terreni, prodotti alimentari, ripari, utensili, armi, abbigliamento, abitazioni) o culturale (informazioni, conoscenze, tecnica, diritto, eloquenza, simpatia, fortuna, salute, amicizie, carisma, organizzazione). Nelle società moderne, dove gran parte delle risorse può essere convertita o acquisita col denaro, il denaro finisce per essere considerato la risorsa per eccellenza, anche se, in se stesso, esso è privo di valore. Il denaro non è alieno dal potere, anzi le due cose sono strettamente correlate e interdipendenti. Infatti, “Solo chi possiede potere può guadagnare e chi guadagna accresce il suo potere” (Sombart 1967: 175).
Oggi le risorse possono essere acquisite o in virtù di una transazione economica (denaro) o per diritto (Welfare State) o come conseguenza delle naturali cure parentali (famiglia) o per beneficenza (carità, volontariato, altruismo). Ma prima che si affermasse lo Stato, quando cioè non c’erano né monete né leggi né istituzioni solidaristiche e gli uomini vivevano in piccoli gruppi che praticavano la caccia e raccolta, in questi casi, il più delle volte, gli uomini dovevano procurarsi le risorse per la sussistenza con la loro intelligenza e la loro energia fisica, per esempio, estraendo i tuberi dalla terra, arrampicandosi sugli alberi per raccogliere frutti o uova dai nidi, catturando animali, e via dicendo. Chi non aveva le abilità necessarie (per es. i lattanti o un adulto ferito) dovevano essere aiutati da altri.
Ora, allo scopo di assicurarsi l’accesso alle risorse per la sussistenza, una comunità doveva occupare un territorio e difenderlo da eventuali intrusi. Ebbene, quel territorio, che era la prima forma di proprietà, poteva essere acquisito o per semplice occupazione, nel caso in cui esso fosse stato in precedenza disabitato, o per conquista, nel caso fosse stato sottratto con la forza a popolazioni che già vi risiedevano. Ebbene, cinquemila anni fa, la conquista di un territorio era divenuta la norma in molte regioni del pianeta, ed è da essa che è nato lo Stato. Insomma, forza e denaro costituiscono i principali mezzi di cui si sono serviti gli uomini per acquisire risorse.
Come si vede, il discorso sulle risorse ci ha condotto inevitabilmente a parlare del principio di forza, il che vuol dire che il pilastro «risorse» non si regge da solo, ma ha bisogno di essere, per così dire, puntellato. Ebbene, i suoi principali puntelli sono la forza e il diritto.
4.2. La forza
Lo Stato duale è un soggetto politico che nasce dalla legge del più forte, e non potrebbe essere altrimenti. Nessun gruppo, infatti, accetterebbe di sottomettersi ad un altro spontaneamente. E poiché gli Stati non riconoscono alcuna autorità al di sopra di sé, ne consegue che, nei loro rapporti conflittuali, l’ultima parola spetta alla forza, cioè alla guerra. Gli Stati “sono l’esito di guerre, violenze, oppressioni, brutalità” (Krippendorff 2008: 28).
La guerra è un “mezzo della politica delle classi dominanti” (Krippendorff 2008: 240), un mezzo che serve ad acquisire ricchezza e potere. La storia è un susseguirsi di fatti che si riferiscono alle azioni militari di bande di guerrieri, che poi “si trasformarono in signori feudali, principi e re, e consolidarono per via dinastica e territoriale quanto avevano conquistato con la spada” (Krippendorff 2008: 240-1). Perciò, ammoniva Erasmo da Rotterdam, quando senti parlare di Achille, di Ciro, di Serse o di Dario, non lasciarti rapire dal prestigio del gran nome: in realtà, stai sentendo parlare di grandi e folli predoni (da Krippendorff 2008: 262).
Lo Stato “si stabilisce per la violenza dei più forti o per il consenso degli uni che di buon grado assoggettano agli altri la loro libertà piena e intera, per essere governati da loro con potere sovrano e senza leggi oppure sotto certe leggi e condizioni” (Bodin 1988: 337). Ma, anche se dovesse nascere pacificamente, lo Stato potrà espletare le sue funzioni solo ricorrendo alla forza. Il ruolo della forza nella genesi e nella conservazione dello Stato è ormai universalmente riconosciuta e ritenuta unanimemente una verità inoppugnabile.
Sin dal paleolitico, la legge del più forte ha costituito il diritto o la principale fonte del diritto: il diritto di ultima parola nei rapporti fra gli uomini, tanto a livello personale quanto a livello di gruppo, il diritto di fondare uno Stato e di imporre la propria volontà alle popolazioni che vi risiedono. La legge del più forte è la suprema «legge di natura». La stessa storia degli uomini “incomincia nel momento in cui il capo cacciatore paleolitico da primus inter pares si trasforma nel sovrano che, grazie al controllo della forza armata, accentra nella propria persona tutti i poteri. È la forza armata che permette al sovrano di riorganizzare la totalità dell’esistenza dei sudditi, costringendoli a produrre quelle eccedenze di beni indispensabili per mantenere una casta sacerdotale e una burocrazia e per costruire le città, i palazzi e le grandi opere pubbliche” (PELLICANI 1998: 787).
È la forza armata che conferisce il potere e consente la costituzione dello Stato e la sua sussistenza. Nessuno Stato, infatti, ha origine in modo pacifico ed è facile osservare uno stretto rapporto fra Stato e guerra: la guerra fa lo Stato, lo Stato fa la guerra. “Gli Stati nascono dalla guerra e si fondano sulla capacità e sulla volontà della classe dominante di fare la guerra” (Krippendorff 2008: 47). Non per niente, la maggior parte delle definizioni di Stato, e ce ne sono tante, pongono l’accento sulla forza, che di quello è considerata elemento fondante e fondamentale. Ne riportiamo alcune.
“Lo Stato è essenzialmente un apparato di costrizione e coercizione. Il tratto caratteristico delle sue attività è quello di costringere la gente, attraverso l’applicazione o la minaccia della forza a comportarsi altrimenti da come gli piacerebbe comportarsi” (MOSES 1995: 71). “Per Stato – scrive Weber – si deve intendere un’impresa istituzionale di carattere politico nella quale, e nella misura in cui, l’apparato amministrativo avanza con successo una pretesa di monopolio della coercizione fisica legittima, per l’attuazione dei suoi ordinamenti” (1999: I, 53). E infatti, “La prima cosa che ogni Stato cerca di fare, dal momento in cui si costituisce, è monopolizzare la violenza. I suoi soldati e la sua polizia sono i soli che possono esercitare legalmente la violenza” (Toffler 1991: 55).
“Anche in società che funzionano garbatamente come quelle delle democrazie moderne l’argomento finale è la violenza. Nessuno Stato può sussistere senza forze di polizia o qualcosa che equivalga alla violenza armata” (POGGI 1998: 98). Come osserva Y. Mény, “la forma e l’organizzazione interna degli Stati è per larga parte il prodotto della sedimentazione storica e delle lotte politiche interne ed esterne” (MÉNY 1991: 21). “Nessun ordinamento sociale esteso – scrive H. Popitz – riposa sulla premessa della non-violenza. Il potere di uccidere e l’impotenza della vittima sono fondamenti latenti o manifesti di determinazione della struttura della convivenza sociale” (POPITZ 1990: 76). Lo Stato moderno “è il risultato di un lento ed irreversibile processo di monopolizzazione dell’uso della forza” (BOBBIO 1999: 518). “Ciò che caratterizza il potere politico è l’esclusività dell’uso della forza” (BOBBIO 1999: 106). Lo Stato è una “macchina di dominio controllata da una minoranza organizzata, pronta a usare la violenza per piegare alla sua volontà la massa non organizzata” (PELLICANI 1998: 786).
L’uso della forza da parte di uno Stato al di fuori dei propri confini spesso merita il nome di guerra di espansione. Secondo Enrico Corradini, “la guerra non è se non una necessità per le nazioni che sono o tendono a diventare imperialiste” (1969: 78). Lo Stato “è il principale strumento della guerra” (GIDDENS 1997: 283). “Nato dalla guerra e grazie alla guerra, lo Stato [...] ha continuato a operare come una macchina da guerra, votata alla conquista di altri territori e all’assoggettamento di altri popoli” (PELLICANI 1998: 788). I fatti sono evidenti: nessuno Stato ha avuto origine in modo pacifico ed è facile osservare uno stretto rapporto fra Stato e guerra. La guerra fa lo Stato, lo Stato fa la guerra.
Ora, il costante ricorso all’uso della forza e alla guerra dimostra con chiarezza che gli Stati sono sistemi sociali ingiusti, che tolgono ad alcuni per dare ad altri, ed è per questo che devono essere sostenuti da una forza tale da prevalere sulle prevedibili rivolte attuate dalla classi svantaggiate, cioè dalle masse popolari. La storia è disseminata di eventi in cui
l’esasperazione delle masse popolari oppresse “è esplosa in devastanti rivolte che hanno scosso dalle fondamenta il sistema di dominio al quale erano assoggettate. Del resto, l’unica arma a disposizione delle vittime della violenza di Stato era la violenza contro lo Stato. La quale, per altro, solo raramente è stata in grado di spezzare lo spietato meccanismo di sfruttamento creato dalle élites del potere” (PELLICANI 1998b: 789). Quando la forza dello Stato si rivela inferiore a quella dei suoi nemici interni, allora lo Stato cade. E lo stesso accade ovviamente nel caso di nemici esterni.
Di norma gli Stati si rapportano fra loro come se fossero persone umane e, come persone, anche gli Stati perseguono i propri interessi, stringono alleanze o entrano in competizione tra loro. In caso di disaccordo insanabile fra due Stati, per ciascuno di loro non c’è altro modo di far valere il proprio punto di vista se non il ricorso alla forza e, se uno Stato volesse dominare sugli altri (e ciò avviene allo stesso modo che tra individui), esso non potrebbe raggiungere il suo scopo se non con la forza. Così, “la guerra è un rischio a cui sono esposti permanentemente gli Stati per quanto bene ordinati” (Poggi 1998: 365), con conseguenze che sono davanti agli occhi di tutti. “L’organizzazione prima dell’Europa, poi del mondo in Stati sovrani non solo ha dato vita alla più forte concentrazione del potere, ma ha anche determinato la più profonda divisione tra gruppi umani che la storia dell’umanità abbia conosciuto” (Levi 1998: 380).
I due pilastri dello Stato «denaro» e «forza» sono dunque in rapporto di dipendenza reciproca e agiscono all’unisono. Insieme essi conferiscono a chi li detenga la capacità di conquistare pressoché tutte le forme di potere pubblico (economico, politico, tecnico, militare, giuridico, dell’informazione), compreso quello di condizionare il comportamento dei propri simili, fino ad asservirli alla propria volontà. La conseguenza è che i ricchi occupano nella società i posti di comando o sono comunque in grado di influenzare tutti i pubblici poteri e orientare le leggi a proprio favore, e ciò spiega anche perché, generalmente, le leggi di uno Stato sono a favore dei ricchi più che dei poveri.
Così è sempre stato nella storia dell’uomo e così è anche oggi, nonostante la diffusione della democrazia e la proclamazione dei diritti dell’uomo. Anche nelle moderne società capitalistiche, infatti, quasi tutto il potere è in mano ai più ricchi. Il ricco è anche proprietario di case editrici e testate giornalistiche, di reti televisive e portali internet, attraverso cui controlla l’informazione e, poiché nelle sue aziende lavorano migliaia di cittadini, egli può facilmente ricattare i politici e orientarne le scelte. Infine, coi suoi soldi il ricco può anche condizionare la giustizia (tutti sappiamo che le cause vengono vinte non da chi ha ragione, ma da chi si può permettere gli avvocati migliori), oppure può scendere egli stesso nell’agone politico e tentare di farsi eleggere e conquistare così anche il potere legislativo.
4.3. Il potere
Il potere nasce da un apparato militare e dà origine allo Stato.
Nel corso della storia, gli uomini hanno incessantemente combattuto per la conquista del potere. “L’alfa e l’omega della teoria politica è il problema del potere: come lo si acquista, come lo si conserva e come lo si perde, come lo si esercita, come lo si difende e come ci si difende da esso” (BOBBIO 1992: 159). Ma che cos’è il potere? Secondo J. Dunn, “Potere è semplicemente il nome con cui si chiama nella vita politica e sociale la libertà umana, la facoltà di scegliere cosa fare” (1983: 178). Detto in altri termini, il potere può essere inteso come la capacità di raggiungere scopi, indipendentemente dai mezzi usati.
Si è soliti dire che i mezzi di cui si serve il p. possono essere di natura politico-militare (legittimità, monopolio dell’uso della forza), economica (denaro) e ideologico-conoscitiva (informazione) e conseguentemente si è soliti distinguere tre tipi di potere: il p. politico, che è legato alla forza delle armi e del diritto, il p. economico, che deriva dal possesso di beni limitati e desiderati, il p. ideologico, che è legato a certe costruzioni teoriche e conoscenze. Secondo Rush, “Il potere politico consiste nella capacità di alcuni individui di organizzare e dominare i loro simili; il potere economico risiede nella capacità di organizzare e sviluppare risorse; e il potere ideologico è la capacità di razionalizzare l’organizzazione sociale attraverso un sistema di credenze o di valori” (1994: 58). Ma ciò non è del tutto esatto. In realtà, il p. è esso stesso un mezzo, mentre quelli che abbiamo chiamato «i mezzi del potere» possono essere visti come forme di potere essi stessi. Ed ecco perché tutti i poteri si influenzano tra loro e finiscono per esprimersi in forma unitaria. Si può parlare perciò di p. al singolare e, tuttavia, riferirsi a tutte le sue forme possibili.
Occorre però rammentare che il vero soggetto non è il p.: non è il p. che si serve di «mezzi», ma sono i singoli uomini che si servono dei mezzi del p. per diventare sempre più potenti, sono i singoli uomini che acquistano p. attraverso i mezzi su menzionati e si servono poi del p. acquisito per acquistare nuovo p., in un circolo che si autoalimenta. È corretta dunque la posizione di Weber, secondo cui il p. è la possibilità di far valere la propria volontà in un contesto sociale, ed è questo il significato che attribuirò al p. nella presente trattazione.
A seconda che lo si guardi in riferimento al singolo individuo umano oppure in senso sociale, il p. può essere suddiviso in tre grandi categorie. La prima prende in considerazione gli attributi fisici e mentali del soggetto individuale e misura la capacità del singolo soggetto umano di piegare l’ambiente al suo volere con le sue sole forze, in modo diretto e prescindendo dagli altri. Nella seconda categoria, invece, il p. viene calato nel contesto sociale è diventa “la capacità di influenzare gli altri” (KELSEN 1995: 343), sempre ovviamente allo scopo di procurarsi risorse, di difendersi e di offendere. In questo caso, gli scopi delle persone sostanzialmente non cambiano, ma cambia il modo di perseguirli. La terza categoria del p. è quella che inerisce al campo politico. Parliamo di p. politico, quando qualcuno ha la capacità di prendere decisioni di pubblico interesse a nome di altri, che sono obbligati a seguirlo.
Abbiamo detto che il potere si conquista principalmente con la forza. Ma come si spartisce il potere dopo che lo si sia conquistato? La storia insegna che ciò può avvenire in diversi modi: per ereditarietà, tipica delle monarchie; per elezione, tipica delle DR, ma possibile anche nelle aristocrazie; per cooptazione, tipica delle forme oligarchiche e degli organismi religiosi; per competenza, tipica delle imprese finanziarie e tecnologiche; per estrazione a sorte, tipica della DD.
Chi detiene il potere politico? Ci sono almeno tre teorie differenti: a) un’élite (Mosca, Pareto, Mills; b) la classe che controlla i mezzi di produzione (Marx); c) né élite, né classe sociale, ma gruppi variabili in competizione fra loro (teoria pluralista di Dahl e Polsby). La teoria pluralista “può essere considerata come una forma della teoria delle élite, con la differenza che si tratta di élite che competono piuttosto che di una singola élite” (RUSH 1994: 80-1).
La questione del potere politico ruota intorno alla domanda «chi deve governare?». Questa domanda dev’essersi insinuata ben presto nella mente degli uomini, sin dal Neolitico, ma, prima degli antichi greci, nessuno si era posta tale domanda in modo filosofico: governava il più forte, per volere di un dio, e basta. Il più forte era colui che conseguiva la vittoria in battaglia, ed era la sua stessa affermazione che attestava il favore del dio. C’era solo da prendere nota dell’andamento dei fatti e nient’altro. Per i greci le cose non sono così semplici e, con loro, inizia il pensiero politico. Su che basi, dunque, si può legittimare il comando di alcuni uomini su altri? A tale interrogativo gli uomini hanno fornito, a partire dai greci, risposte diverse ma, in maggioranza, sono concordi nel giustificare una società duale, dove una sola persona o un piccolo numero di persone esercitano un potere su intere masse di uomini. In questa sede riporto il pensiero di alcuni fra i più autorevoli studiosi, solo a titolo esemplificativo.
Per Aristotele, è buono qualsiasi governo che esercita il potere nell’interesse comune, è cattivo qualsiasi governo che agisce nell’interesse di parti (Pol. 1279a 18-23). Non importa se comanda uno solo, pochi o tanti: quello che importa è che il potere dev’essere esercitato nell’interesse di tutti. Per quanto condivisibile, questo principio sembra troppo vago perché possa avere una reale consistenza. Il fatto è che ogni governante potrà giustificare il proprio operato adducendo il motivo che esso è stato pensato per il vantaggio di tutti, e difficilmente può essere smentito. Non occorre andare lontano per comprendere i limiti della posizione aristotelica perché abbiamo dinanzi a noi il fulgido esempio del governo Berlusconi, che certamente passerà alla storia come il governo che, più d’ogni altro, ha varato leggi ad personam affermando che erano a vantaggio di tutti.
A giudizio di Platone la massa è assolutamente incapace di governarsi, perché il governo di uno Stato richiede competenze eccezionali, che solo pochi possiedono. Partendo dal postulato che gli uomini nascono diversi in abilità e potenzialità, il filosofo suggerisce l’opportunità di selezionare precocemente i bambini e di distinguerli in tre classi, destinando i migliori all’amministrazione dello Stato (i futuri governanti), i più robusti e coraggiosi alla difesa (i futuri guerrieri) e tutti gli altri cittadini alle attività produttive. Costituite le tre classi, ciascun bambino andrebbe educato in funzione dello specifico compito, cui è stato destinato. In sostanza, Platone sogna un governo per il popolo (tecnocratico, paternalistico e autoritario) e non un governo del popolo. “La concezione platonica della relazione tra il governante e il cittadino è quella di una relazione genitore-bambino; il governante è essenzialmente un genitore che dirige la vita del cittadino-bambino” (POPKIN e STROLL 1997: 98). Né è previsto che il cittadino-bambino diventi adulto: la sua natura è quella di bambino, ed è bene che egli rimanga tale. Non c’è posto per il cittadino autonomo, libero e responsabile e non c’è nemmeno spazio per la democrazia. La società, come la immagina Platone, appare nettamente distinta in due parti: i governanti, una sparuta minoranza, e i governati, la quasi totalità della popolazione.
Secondo Hobbes, per evitare di sbranarsi l’un l’altro e avere almeno salva la vita, gli uomini stipulano tra loro un patto e cedono ad un solo uomo la loro libertà individuale. “L’unico modo in cui gli uomini possono erigere un potere comune che sia in grado di difenderli dall’aggressione di stranieri e dai torti reciproci, e quindi garantire una sicurezza tale che essi possano sostentarsi e vivere bene grazie alla loro industria e ai frutti della terra, è quello di conferire tutto il loro potere e la loro forza ad un uomo o ad un’assemblea di uomini, che, a maggioranza di voti, possano ridurre tutte le loro volontà ad una volontà unica [...]; come se ognuno di essi avesse detto all’altro: io autorizzo, e cedo il mio diritto di governarmi a quest’uomo o a questa assemblea di uomini, a condizione che tu ceda a lui il tuo diritto, e autorizzi allo stesso modo tutte le sue azioni” (HOBBES 1998: 111, corsivo mio). Mentre nel medioevo il rappresentante continua a far parte della comunità da lui rappresentata, Hobbes inaugura una nuova figura di rappresentante che si distacca dalla comunità che lo ha eletto e diventa altro da essa. In Hobbes il dualismo sociale appare ancora più esasperato e radicalizzato rispetto a quello previsto dal modello platonico, in quanto prevede da una parte un solo uomo, il re, dotato di un potere assoluto, dall’altra parte il resto della popolazione, in condizione di sudditanza.
Diverso è il punto di vista di Locke. Per il filosofo inglese, gli uomini potrebbero vivere bene anche allo stato di natura, ma convengono che una vita sociale ordinata costituisca il modo migliore di amministrare la giustizia e tutelale le persone e i loro averi. Lo Stato sarebbe allora una creazione «culturale» da parte dell’uomo, allo scopo di evitare il caos e l’insicurezza derivanti da una coesistenza fondata unicamente sui legami naturali. La sovranità continuerebbe, dunque, ad appartenere al popolo, che la esercita secondo il principio di maggioranza e attraverso i suoi rappresentanti. In questo modo Locke getta le basi delle future democrazie rappresentative. Il punto debole della concezione lockiana è che le minoranze vengono lasciate in balia della maggioranza. La società di Locke rimane comunque di tipo duale, perché vi si possono agevolmente distinguere cittadini di serie A (i rappresentanti) e di serie B (i rappresentati).
Secondo Hegel, lo Stato è un ente personale, che progredisce incessantemente verso la perfezione, indipendentemente dalla volontà degli uomini. Esso è distinto e separato dai singoli cittadini a ha dignità, esigenze e principi suoi propri, che sono superiori a quelli del semplice individuo. La ragion di Stato conta più di quella individuale ed è bene che il cittadino non metta al primo posto i suoi personali interessi e anzi si sacrifichi per il bene comune. In quanto somma di individui, nemmeno il popolo ha valore in sé. “Non è più la sovranità popolare che fonda lo Stato, ma è soltanto lo Stato che può fondare il popolo, il quale al di fuori dello Stato resta una massa informe. Solo per lo Stato si può parlare di sovranità, non per il popolo” (GRUPPI 1969: 104). In teoria la concezione hegeliana dello Stato si accorda con qualsiasi forma di governo, ma è particolarmente congeniale con la monarchia assoluta (la persona dello Stato coincide con quella del re) e antitetica alla democrazia a causa del ruolo secondario che viene accordato ai cittadini.
Secondo Marx, lo Stato origina dalla lotta delle classi e rappresenta uno strumento nelle mani della classe più potente dal punto di vista economico, quella cioè che si è appropriata dei mezzi di produzione, allo scopo di asservire le altre classi ed esercitare il potere politico. Più precisamente, per Marx, lo Stato rappresenta “il collegamento fra potere economico e potere politico, costituisce il punto d’incrocio fra economia e politica” (GRUPPI 1969: 15).
4.4. La legittimazione
Una volta giunta al potere, allo scopo di rendere stabile il proprio potere, la classe dominante “cerca di suscitare e di coltivare la fede nella propria legittimità” (WEBER 1999: I, 208). Uno Stato legittimato “cessa di essere concepito come puro dominio e viene vissuto come l’istituzione grazie alla quale l’ordine e la pace sono garantiti nel quadro di valori e norme largamente condivisi” (PELLICANI 1998: 789). A questo punto, esso riesce a ottenere “la pronta e automatica obbedienza di milioni di uomini agli ordini di pochi” (PELLICANI 1998: 789), ed è qui che cominciano ad affacciarsi nella storia i segni di bisogni prima sconosciuti, ossia i prodotti dell’arte e della cultura in generale. I bisogni primari cedono ora il passo ai bisogni di potenza e di grandezza, che animano i signori delle nuove realtà politiche.
Immaginiamo di tornare indietro di cinquemila anni e di trovarci in Mesopotamia, dove, alla fine di una lunga e sanguinosa guerra, che ha visto contrapposti due confederazioni tribali, un abile condottiero, dopo essersi imposto, abbia stabilito di risparmiare i prigionieri per renderli schiavi, insediare guarnigioni nei punti strategici in modo da tenere sotto la minaccia dell’uso della forza l’intera popolazione e imporre la propria legge, che disegna una società duale, in cui i vincitori occupano i posti di comando, i vinti quelli servili. Ebbene, la storia ci insegna che questa situazione quasi mai si mantiene stabile nel lungo periodo, tali e tanti sono i possibili fattori di cambiamento che possono rovesciarla. Ne ricordo due fra i più importanti. Il primo rischio è quello di essere attaccati da un nemico esterno, con la prospettiva, in caso di sconfitta, di una perdita di risorse e di vite, che è più dolorosa da accettare per la classe dominante e per i ricchi proprietari che per i nullatenenti e i servi. Il secondo fattore di rischio è insito nell’inevitabile stato di tensione sociale che si determina in una società duale, dove la classe dominata difficilmente potrà essere soddisfatta della propria condizione e spera in un cambiamento, che potrà provenire dall’attuazione di riforme sociali oppure dall’abbattimento delle istituzioni politiche vigenti ad opera di una rivoluzione e di una guerra civile. Alla fine, anche gli uomini più potenti dovranno prendere atto che il loro cammino è disseminato di insidie e la loro posizione rischia di rivelarsi effimera (cfr. LUCREZIO 1999: V 1120-7).
Ora, una condizione di incertezza cronica, se può essere gradita a quanti si trovino a vivere in condizioni di svantaggio (ma non è detto che lo sia), è certamente vista come fumo negli occhi da coloro che occupano posti di comando o che dispongono di risorse da difendere, i quali possono bensì ricorrere sistematicamente alla forza e spegnere col sangue i focolai di contestazione, ma rimarrebbe sempre il timore che possano accendersi nuovi focolai, oppure che la contestazione si estenda in modo imprevedibile e sfugga loro di mano, oppure che qualche membro delle famiglie dominanti cada vittima di qualche attentato o che si giunga ad un sovvertimento dei rapporti di forza col rischio di un avvicendamento al potere. Insomma, sin dagli inizi della storia, gli uomini potenti si sono accorti che le armi risultano bensì efficaci nella conquista di uno Stato, ma sono poco adatte a conservare la pace interna e a determinare condizioni di sicurezza sociale, ed è per questo che si sono adoperati allo scopo di elaborare ideologie di legittimazione, tali da giustificare il sistema sociale vigente agli occhi delle masse. In altri termini, “perché le relazioni di autorità possano sussistere senza conflitti continui, bisogna che i seguaci credano nel diritto del leader a prendere decisioni e dare ordini” (BOCK 1978: 349).
Di norma, le ideologie di legittimazione sono opera di intellettuali che orbitano intorno alla classe dominante, i quali spiegano le ragioni per cui il potere debba essere sottratto alle singole persone e ai singoli clan e conferito interamente al sovrano o allo Stato.
Le tecniche di legittimazione che si dimostrano maggiormente efficaci sono due: farla derivare dall’esterno e dall’alto (di solito, da un dio) o dall’interno e dal basso (di solito, dal popolo). Nei tempi più antichi è prevalsa la tendenza di legittimare lo Stato riconducendolo alla volontà di un dio. Di qui l’importanza dei sacerdoti e di speciali personaggi che si ritiene siano invasati dallo spirito divino. Sacerdoti e santoni giocano un ruolo politico che si rivela spesso determinante, sia per la partecipazione delle famiglie alla guerra, sia per le alleanze tribali, sia per la designazione di chi dovrà assumere il comando supremo delle operazioni. Alla fine, comunque, sarà unto sovrano il prescelto dalla divinità, che, in quanto tale, sarà da ritenere sicuramente il migliore possibile fra la rosa dei candidati.
Per conseguenza, i primi Stati sono ordini teocratici, nel senso che tutti i poteri istituzionali vengono ricondotti al supremo volere divino. In questa prima fase, la funzione regale si compenetra e si confonde con quella sacerdotale e spesso vengono assunte dalla stessa persona. Talvolta un portavoce divino può ritenere utile di mettere per iscritto le volontà del suo dio, creando così i presupposti per la nascita di un testo sacro, ove sia possibile desumere le direttive politiche, le norme etiche e gli indirizzi comportamentali voluti dal dio e che finiscono per tradursi in cultura locale, diritto o coscienza di popolo. Bisognerà aspettare gli antichi greci prima che questa impostazione venga rovesciata, spostandone il punto di osservazione dalla sfera divina a quella umana. Per i greci, in sostanza, non è un dio che designa il sovrano, ma gli uomini, e spetta agli uomini di interrogarsi sull’arte del governo e stabilire chi debba comandare.
Con i greci il popolo assume un ruolo politico di primo piano. Il popolo è innanzitutto un universo delle famiglie cui è affidato il compito di impugnare le armi in difesa della patria ed in virtù di questa fondamentale funzione che dev’essere il popolo, e non un dio, a legittimare lo Stato. Questa svolta culturale è coincisa con l’affermazione della democrazia, e la troviamo tanto ad Atene nel V-IV secolo, dove la tradizionale piramide sociale è stata abbattuta a favore dell’assemblea dei cittadini, che traeva da se stessa il proprio potere sovrano, quanto nelle moderne democrazie liberali, in cui, alla legittimazione di derivazione divina si è voluto sostituire quella di derivazione popolare, che trova espressione in periodiche e libere consultazioni elettorali. A differenza dello Stato teocratico, in cui vige la legge di un dio, nello Stato laico la legge è fatta dagli uomini. Nel primo caso la legge è sacra e immutabile, nel secondo caso è opera umana imperfetta e mutevole. In entrambi i casi, la legge costituisce un codice etico normativo condiviso e tale da assicurare l’ordine sociale.
Legittimare lo Stato significa, in ultima analisi, conferire al monarca il monopolio della forza. Ora, questa operazione risolve in parte il problema dell’ordine sociale interno, ma lascia aperto quello dei rapporti internazionali, dove il principio di forza non è più sottoposto a regole. Insomma, le ideologie legittimanti non mettono in discussione il principio di forza, ma semplicemente lo sottraggono all’arbitrio degli individui per affidarlo all’arbitrio dei sovrani.
Ma, in che cosa si distingue, si chiede allora S. Agostino, uno Stato fondato sul principio di forza da una banda di ladroni? Insomma, diventa sempre più chiaro che non basta aver legittimato lo Stato nel nome di un dio o del popolo, non basta riconoscere al sovrano il monopolio della forza e non basta nemmeno che vi siano leggi uguali per tutti. La vera legittimazione dello Stato deve invece basarsi su valori morali di giustizia, gli stessi che dovrebbero regolare i rapporti internazionali, ma questa nuova coscienza si affermerà molto tardivamente e solo in linea teorica.
Ancora oggi esistono ideologie di legittimazione degli Stati. Per lo più esse sono basate sul consenso popolare, oltre che su certe teorie filosofiche. Così, si può ritenere che la gerarchia sociale sia una legge di natura e che un governo sia legittimato quando rispetta questa legge (Grozio); oppure ci si può appellare alla storia e affermare che il potere politico è legittimato da una lunga tradizione (Burke) o da un nuovo corso che sta iniziando, come le Rivoluzioni americana o francese (Jefferson, Robespierre), oppure si può sostenere, col positivismo giuridico, che uno Stato è legittimo finché si dimostra in grado di funzionare (Kelsen). In realtà, nessuna forma di legittimazione è incontrovertibile, ma tutte sono opinabili, se non delle “mere finzioni” (BOBBIO 1985: 79). Tuttavia, indipendentemente da come viene motivata, la legittimazione svolge un ruolo fondamentale nel conferire una relativa stabilità e longevità ad un dato ordine sociale. Solo uno Stato legittimato, infatti, “cessa di essere concepito come puro dominio e viene vissuto come l’istituzione grazie alla quale l’ordine e la pace sono garantiti nel quadro di valori e norme largamente condivisi” (PELLICANI 1998: 789).
Il fenomeno della legittimazione del potere è stato fatto oggetto di un profondo studio da parte di Max Weber. Secondo lo studioso, potere significa possibilità di far valere la propria volontà e di ricevere obbedienza, anche di fronte ad un’opposizione (1999: I, 51-2). Lo studioso parla di lotta quando qualcuno tende a imporre il proprio volere a qualcun altro che oppone resistenza (ivi: I, 35). Nello stato di lotta il potere non è ancora affermato, ma è solo insidiato da un’opposizione. Man mano che un potere si va affermando, esso “cerca di suscitare e di coltivare la fede nella propria legittimità” (ivi: I, 208). Nascono così le ideologie strumentali e asservite al potere. Weber distingue tre tipi puri di potere legittimo (ivi: I, p. 210): primo, di carattere razionale, quando il popolo ritiene che chi detiene il potere ne abbia tutto il diritto (ne è un esempio il potere amministrativo-burocratico); secondo, di carattere tradizionale, quando il popolo vede nel potere qualcosa di sacro, sancito da una tradizione che si perde lontano nel tempo (ne sono esempi la gerontocrazia e il patriarcalismo); terzo, di carattere carismatico, quando poggia sulla dedizione straordinaria del popolo nei confronti di una persona, ritenuta dotata di qualità eccezionali (“Il gruppo di potere di questa specie costituisce una comunità di carattere emozionale” (ivi: I, p. 239). Dunque, il potere non implica necessariamente il concetto di lotta. Anzi, il più spesso, esso si accompagna ad una volontà dei sottomessi di ubbidire. Diciamo allora che il potere è condiviso e legittimato.
Ora, se c’è qualcuno che comanda deve esserci qualcun altro che obbedisce. Ma perché mai la gente dovrebbe accettare di ubbidire? Le spiegazioni possono essere molteplici. La gente potrebbe pensare che non c’è possibilità di scelta, oppure che è meglio seguire la tradizione, oppure che è meglio accontentarsi del presente, che è certo, piuttosto che cercare un futuro migliore, che è incerto, oppure che le cose che oggi non funzionano si aggiusteranno gradualmente e tutto andrà per il meglio, oppure che al momento attuale non si può fare di più. Una volta accettata l’impostazione duale della società, i cittadini devono obbedire all’autorità costituita, indipendentemente dal fatto che essi condividano i suoi comandi. “Accettare l’autorità significa precisamente astenersi dall’analizzare criticamente ciò che viene imposto di credere o di fare” (LUKES 1996: 728). Nello Stato l’indipendenza di giudizio individuale è mal tollerata, mentre vengono promossi il conformismo e il gregarismo. “In sintesi si può dire che il potere tende sempre più a configurarsi come una realtà contraria alla libertà: non come strumento di libertà ma come uno strumento contro la libertà” (GEYMONAT 1993: 127).
4.5. Il diritto
Come ha giustamente scritto Rousseau nel Contratto sociale: “Il più forte non sarebbe mai abbastanza forte per essere sempre il padrone, se non trasformasse la sua forza in diritto e l’obbedienza in dovere” (tratto da RUSH 1994: 67). Così, i grandi signori della guerra hanno lasciato dietro di sé una classe signorile legittimata a comandare non più dalla forza, ma dal diritto: “non solo la forza divenne diritto, proprietà e dominio legalizzato politicamente, la forza divenne anche e soprattutto Stato” (Krippendorff 2008: 239).
Nel momento in cui uno Stato viene legittimato in un modo o nell’altro, si determinano le condizioni per tramutare la sua particolare piramide sociale in princìpi etici e normativi, ossia in leggi, e a ciò provvede, ancora una volta, una piccola schiera di intellettuali che, nelle vesti di sacerdoti, di funzionari o di liberi pensatori, provano a farsi interpreti degli attuali rapporti di forza. In definitiva, è l’esigenza di rendere stabili le posizioni acquisite per mezzo della forza e giustificate dalle ideologie legittimanti a creare il diritto (cfr. LUCREZIO 1999: V 1143-4) e a far sì che chi abbia conquistato il potere possa conservarlo, senza dover più ricorrere alle armi. Insomma, da quando la forza è diventata monopolio dello Stato “il potere ha sempre e dappertutto bisogno di una veste legale” (GSCHNITZER 1988: 140). Così, dalla forza si passa alla legittimazione e dalla legittimazione al diritto del più forte, ossia al diritto «ingiusto».
Grazie al diritto è possibile assicurare l’ordine e la pace sociale senza dover ricorrere costantemente alla forza, e ciò conferisce allo Stato un aspetto di tipo civile, anche se la legge continua a distribuire le risorse in un modo che ricalca il vecchio principio di forza.
In uno Stato di diritto ingiusto, i principali beneficiari sono le istituzioni statali, che assurgono a valori sommi, mentre la principale vittima è la persona individuale, che è chiamata al sacrificio di sé e all’obbedienza. Il potere costituito teme la libertà della persona, favorisce il conformismo e il gregarismo e chiede alle persone di rinunciare a quella che è l’essenza stessa dell’individualità: l’autonomia di giudizio. “Accettare l’autorità significa precisamente astenersi dall’analizzare criticamente ciò che viene imposto di credere o di fare” (LUKES 1996: 728). Non ci deve sorprendere pertanto il fatto che, nel Novecento, sia aumentato il ruolo dello Stato, mentre si è ridotto il peso politico del cittadino. “I campi in cui i sistemi giuridici hanno in genere aperto ulteriori spazi di libertà alle scelte degli individui sono quelle della vita intima, delle relazioni personali e della cultura [divorzio facile, diritto all’interruzione volontaria della gravidanza, piena libertà di espressione e di stampa] [...] Ma in tutti gli altri campi gli ordinamenti adottano regole che circoscrivono maggiormente le autonomie individuali” (Bognetti 1998: 51).
4.6. La giustizia
Insieme alle «risorse», ci si aspetterebbe che la giustizia costituisse il principale pilastro dello Stato, è invece essa è un pilastro fantasma, almeno sotto il profilo dell’effettività. Dal punto di vista teorico, invece, i proclami si sprecano. In realtà, l’uomo è perfettamente consapevole che, perché possa vivere in pace e armonia, un’estesa comunità di persone deve applicare princìpi di giustizia. Questo messaggio è contenuto pressoché in tutte le religioni «moderne», quelle cioè che sono nate a partire dal VI secolo a.C., le quali, cristianesimo in testa, hanno propalato l’idea che “il supremo potere, che è il potere politico, debba avere anche una giustificazione etica (o, che è lo stesso, un fondamento giuridico)” (BOBBIO 1985: 79).
La prima solenne proclamazione dei princìpi di giustizia, quelli che sono più noti come diritti fondamentali dell’uomo, risale alla costituzione della Virginia nel 1776. Da quella volta i princìpi di giustizia sono stati ribaditi in più occasioni (in Francia nel 1793, dall’Onu e dalla costituzione italiana nel 1948, dall’UE nel 2001) e oggi costituiscono un caposaldo irrinunciabile della democrazia. Il problema è che spesso i fatti rimangono lontani dalla teoria. Insomma, sappiamo ciò che dobbiamo fare, ma non lo facciamo. Sappiamo che dobbiamo attuare un ordine mondiale dove ad ogni persona sia garantito l’esercizio effettivo dei suoi diritti fondamentali, ma poi ci riveliamo incapaci di creare un diritto internazionale e rispettarlo, e lasciamo che i rapporti fra Stati continuino ad essere regolati dalla suprema legge della forza.
La constatazione è delle più amare: fino ad oggi, in nessun caso, l’uomo si è rivelato capace di attuare un ordine sociale fondato sui princìpi di giustizia che promanano dalla Dichiarazioni dei diritti della persona che, da oltre due secoli, riecheggiano da un capo all’altro del pianeta e, in mancanza di ciò, la legittimazione dello Stato continua a poggiare in modo determinante sul vecchio principio di forza. Così, non esiste nessuno Stato dove la legge sia effettivamente uguale per tutti, il diritto non faccia distinzione fra i cittadini e ad ogni individuo siano garantiti i suoi diritti fondamentali. Di giustizia si parla più per tacitare le coscienze che per una reale volontà di attuarla. Alla fine, la giustizia rimane relegata alla sfera religiosa o al mondo accademico e, di fatto, accantonata come se fosse un sogno o un’utopia impossibili da realizzare. Fra gli studiosi contemporanei che si sono occupati dell’argomento, un posto d’onore spetta certamente a John Rawls.
La dottrina anti-utilitaristica di Ralws, che riconduce la fondazione dello Stato ad un «contratto» fra uomini liberi e desiderosi di migliorare le loro condizioni di vita, è di chiara ispirazione lockiana. A differenza di Locke, tuttavia, Ralws non pone al centro della sua teoria la proprietà privata, ma la giustizia, che promana dal principio morale, già espresso da Kant, di trattare ogni persona come uno scopo e mai come semplice mezzo. Rawls immagina che degli individui decidono di riunirsi in assemblea, allo scopo di decidere come dovrà essere la società in cui essi andranno a convivere, senza sapere quale posto potrà toccare a ciascuno di loro. Ebbene, secondo il filosofo, questi soggetti «originari» pretenderanno un’uguaglianza di opportunità e tollereranno una condizione di disuguaglianza solo se essa produca benefici compensativi per i membri più svantaggiati. Rawls ripete in sostanza ciò che proclama il primo art. della Dichiarazione dei diritti dell’uomo: “Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti. Le distinzioni sociali non possono essere fondate che sull’utilità comune”. Nella società descritta da Rawls esistono differenze di status e ineguali distribuzioni della ricchezza, ma non si nega a nessuno il minimo per un’esistenza dignitosa. Si delineano insomma le condizioni per un’affermazione di una società finalmente corale e autenticamente democratica.
4.7. L’ideologia
Insieme, le teorie legittimanti e il diritto formano un potente apparato ideologico, la cui funzione è quella di far credere alla gente che la distinzione degli individui per nascita (nobili e plebei), per ruolo (sacerdoti, scribi, funzionari, soldati, ecc.) e per censo (ricchi e poveri) sia un fatto naturale. Ma perché l’inganno non venga smascherato da una popolazione «sveglia», si fa di tutto per “mantenere il popolo a bassi livelli di educazione” (MILL 1997a: 97) e convincerlo che l’obbedienza sia la massima virtù civica. In ultima istanza, questo imponente apparato ideologico incoraggia e premia i valori della rassegnazione, della speranza e della fede nella vita eterna e nella giustizia divina post mortem. In più, esso alimenta la sfiducia nell’uomo e nelle sue capacità di autodeterminazione, mentre poi si sostiene che bisogna avere fiducia in coloro che governano, come se essi non fossero uomini al pari degli altri.
Alla fine, quello che prima era un equilibrio temporaneo, espressione dei variabili rapporti di forza tra clan, diviene ora una questione di cultura nazionale, e così, lo Stato duale diventa un valore quasi sacro, da preservare a tutti i costi. Da questo momento, il fatto che esso si componga di uomini di serie A, quelli che possono assumersi responsabilità di governo, e uomini di serie B, quelli che devono essere condotti per mano come bambini, viene considerato una cosa «normale» e «naturale» e ci si meraviglierebbe se non fosse così. Uno Stato siffatto può esigere “la pronta e automatica obbedienza di milioni di uomini agli ordini di pochi” (PELLICANI 1998: 789), il che vuol dire che i bisogni dell’individuo vengono subordinati all’esigenza di potenza e di grandezza dello Stato.
4.8. La sovranità
Libertà e responsabilità sono i due fattori imprescindibili della sovranità: la prima indica che il soggetto sovrano non deve rendere conto ad altri del suo comportamento; la seconda stabilisce che la sovranità va riferita esclusivamente a soggetti umani, in quanto solo gli esseri umani possono essere ritenuti responsabili delle proprie azioni. Ci sono almeno due modi di concepire la sovranità di uno Stato: il primo è riconducibile al principio di forza (uno Stato è sovrano entro i limiti consentiti dal suo apparato militare); il secondo rientra nell’ambito del diritto (uno Stato è sovrano entro i limiti stabiliti dalla sua stessa legge e nella misura in cui gli viene consentito dalla legge degli altri Stati). In entrambi i casi, la sovranità può essere causa di problemi laddove i rapporti tra Stati siano conflittuali. In questi casi, infatti, non essendo riconosciuta un’autorità superiore, il conflitto spesso degenera in scontro armato e così, ancora una volta, ci veniamo a trovare di fronte al principio di forza che, in questo caso, fa da arbitro supremo nelle contese fra Stati sovrani.
Ora, a differenza della persona individuale, che spesso agisce sotto la spinta di sentimenti benevoli (pietà, empatia, ecc.), lo Stato, essendo privo di sentimenti, “non può sperare se non nella sua forza” (VALLI 1969: 39) e non può non esaltare la «bellezza» della guerra e relegare il pacifismo fra gli atteggiamenti nefasti (ib. p. 40-2). Con questi presupposti è facile scivolare nel nazionalismo, e “il nazionalismo non solo accetta la guerra come una necessità, ma la esalta come un dovere” (Sighele 1969: 199).
Riconoscere il potere sovrano allo Stato significa ammettere che la ragion di Stato debba sovrastare quella degli individui, con effetti devastanti sulla democrazia. Infatti, nel momento in cui si afferma il primato dello Stato sull’individuo, si giustifica il sacrificio del singolo a favore della comunità statuale e si stabilisce che scopo della politica non è la felicità individuale ma la conservazione e la potenza dello Stato stesso. Avviene così che, come ha osservato Nietzsche, “le prescrizioni che si dicono «morali», in verità sono dirette contro gli individui e non vogliono affatto la loro felicità” (1990: 107).
In virtù della propria sovranità, lo Stato si sente autorizzato a forgiare individui ben disposti a sottomettersi all’autorità costituita, a rispettare le tradizioni, a conformarsi ai valori che più convengono alla nazione e a rinunciare alla propria libertà di pensiero. Ora, questa mentalità, che ha dominato la storia degli uomini fino ai giorni nostri, è, secondo Angelo Panebianco, “del tutto incompatibile con la democrazia” (1997: 120).
8. Le teorie sullo Stato
15 anni fa
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